Narrativa edita on line

 

Javier

un racconto di Marco Righetti


Otto canne in fila decrescente, unite sotto a zattera. Le impugnava con naturalezza. Soffiava con grande concentrazione, come se raccogliesse fra le dita rugose, incurvate dagli anni, quello che c’era intorno a lui. Le note acute, penetranti del sikus riassumevano la mutevolezza del vasto altopiano, quell’intrecciarsi di paesaggi e memorie precolombiane e sponde blu, di cielo, di lago. Le note lambivano il Titicaca e poi salivano al Nevado Sajama, il massiccio più alto della Bolivia, fino a svegliare Apu, la divinità della Cordillera Occidental, e Pachamama, la sacra madre terra, la dea della fertilità, dell’agricoltura. Quella musica era un richiamo irresistibile, non solo per Javier, che ci si fasciava orecchie e anima.

Ogni sikus consta di due elementi, quello che domanda e l’altro che risponde, perciò viene solitamente suonato in coppia, alternativamente. Javier però aveva solo il pezzo che domanda. Adesso aveva trovato il rimedio: aggiungeva a voce le note mancanti, ricostituendo così l’intera scala modale minore.

Si stancò presto. Staccò il flauto dalle labbra. Negli occhi passò il volo di un condor, alto, spiegato e inaccessibile come un teorema sulla grandezza delle montagne. Aveva rigato l’azzurro ed era sparito. Il cielo, dopo quella striatura scura gli sembrò diviso in due. Sarebbe crollato? Ebbe paura, pensò che non gli restasse altro che continuare nella sua melodia solitaria e tentare di frenare ogni conseguenza, la temuta rivolta di una natura violentata dagli uomini, da coloro che avversavano le piantagioni di coca. Il suo villaggio distava solo un chilometro, un pastore con alcuni capi di lama lo affiancò, comparso dal nulla. Javier cercò di riconoscerlo, ma aveva in faccia il riverbero di un sole asfissiante nonostante il copricapo. Tornò a puntare davanti a sé escludendo le vette, quella corona lontana, sfrangiata in tramonti e albe celate agli uomini. Vide ugualmente il cielo, era capovolto, una striscia cobalto dentro una pozza d’acqua e un uccellino che vi saltava timidamente. Si accorse d’aver ripreso a suonare e a cantare. Il flauto alla bocca era il terminale del cuore, il suo stesso respiro. Gli sembrava adesso che le note danzassero nel solito rituale serale, quando pregava le divinità del lago perché la sua famiglia non soffrisse dei mali del continente e restasse radicata alla terra come un tubero di maca, quella pianta capace di adattarsi a climi impossibili, di artigliare vita sotto le vette ghiacciate delle Ande.

All’improvviso gli sparì la voce, non poté più completare i suoni mancanti. Si toccò la fronte, aveva tracce di un sudore rappreso, una fatica mai intermessa. Avvertiva una spossatezza micidiale e, ora che aveva smesso di suonare, il silenzio le dava spessore. Dopo alcuni minuti in cui rimase assente, immobile come un manufatto incaico, portò la bocca nuovamente alle canne di bambù, adesso però non aveva nemmeno più fiato. Si guardò intorno smarrito, il pastore era già lontano, aveva coperto una distanza eccessiva in pochi minuti. Cercò allora di rimettersi in piedi, doveva solo percorrere quelle poche centinaia di metri, un nulla rispetto alla lunghezza dell’altopiano, della Cordillera, della Storia. Un condor (quello di prima?) disegnò a terra una croce dai bracci estesi, qualcosa che indicava a Javier un compimento. Si sentì mancare. Si mise le mani in tasca, non aveva foglie di coca, le aveva già masticate, le ultime le aveva offerte a Pachamama, erano giorni che non mangiava veramente. Ripensò a quello che gli raccontava sua madre, prima di partorire aveva bevuto mate di coca, il sacro tè andino. Imboccò lo strumento illudendosi che fosse un contenitore di chicha, l’acquavite di mais che aveva sempre con sé, lui novello Felipe Delgado. Non fu necessario altro: la danza prese corpo, uno stormo di fenicotteri rosa partecipò al rito, venivano dalla Laguna Colorada? Javier era estasiato, non sapeva cosa stesse accadendo. Gli sembrò che fosse tutto troppo vero. Aveva sempre sognato di guarire dalla solitudine. Era rimasto colpito dal grido poetico di Jaime Saenz: se nessuno ama allora sono le cose che mi amano. E adesso qualcuno aveva preso i suoi desideri e li aveva esposti al cristallo di quella regione sopraelevata, a quasi quattromila metri, non lontana dalle rovine di Tiahuanaco, forse la più antica città al mondo. Adesso non era più solo, anzi ogni cosa faceva numero, popolazione, evento. Il flauto giaceva a terra, in gola non aveva nemmeno il respiro, ma la musica continuava, era diventata un fervore di voci umane con la percussione di bombos e wankaras. E lui, miracolosamente leggero, si immergeva in quei ritmi e colori, nelle facce degli altri indigeni, nell’entusiasmo di piedi pulsanti. La luce giocava a entrare e uscire dal terreno, osteggiata dai corpi danzanti, quella loro ombra confusa, inquieta, sembravano volatili che si erano dati appuntamento lì per la riproduzione. Nel volgere di pochi secondi comparvero infatti ibis andini che frullavano le ali a un metro dal suolo. I danzatori erano spariti. E la musica? Continuava. Ma da dove veniva? Non potevano essere quegli uccelli a crearla. Rifluiva da lontano, portata dal vento. Quelle erano le note volate via dal suo sikus come semi di quinoa. Adesso tornavano come un grano, un raccolto. Le melodie da lui liberate in quell’aria assoluta, sferzata da superfici sconfinate, ritornavano al loro umile creatore, come in una leggenda sulla generosità della sua terra. Davvero non era più solo, se ne rallegrò infantilmente. E le parole? Non servivano più, erano germogli di un movimento profondo. La Cordillera con i suoi misteri respirava maestosa, Javier percepiva finalmente quell’incastro perenne di rocce gelo e vulcani. E il miracolo della queñua, l’albero nano che cresce anche oltre i cinquemila metri. Gli Aymara, la sua etnia, lo avvolgevano ora in figure di alti credenti, allungati forse dalle fatiche, simili ad arbusti perenni, immarcescibili. Erano intorno a lui, lo invitavano energicamente a cercare Oruro, la sua città d’origine. Javier allora si voltava e non trovava nemmeno il suo villaggio attuale. No, non c’erano paci pronte ma voci sconosciute, episodi a cui mai avrebbe creduto, in Bolivia era tutto possibile, con quell’incredibile varietà di ambienti, climi e spettacoli naturali. Ogni cosa accadeva per la prima volta, senza un passato, ma anzi prospettando un’altra lingua, un altro mondo, forse l’incontro con gli dei che aveva sempre venerato.

“Javier!” la voce risultò involontariamente dura, scostante.

Erano minuti che Maria Concepcion lo stava chiamando. Lo scosse con movimenti ripetuti, delicati, finché non si svegliò. “Javier!”. Si rasserenò non appena aprì gli occhi, lo scrutava per capire come stesse.

La intravide, sentiva in sé – quasi un frutto indesiderato e ineluttabile – l’estraneità primordiale e buffa, insensibile al tempo, di un alpaca. Proveniva da territori impervi. Nello sguardo lasciò trapelare una lontananza spaventosa, come se la Bolivia fosse entrata in lui e gli avesse seminato cielo e terra, paludi e lagune, deserti e foreste, impedendogli poi di diventarne partecipe, e relegandolo a contenitore stremato da quella vastità.

“Javier”, disse ancora, carezzandolo. La febbre lo consumava. Dopo un tempo che sembrò interminabile le raccontò, come poté, qualche immagine dal sogno. Muoveva lentamente la bocca. Lo interruppe, gli fece bere un licuado a base di frutta acqua e latte. Prima di ridistendersi, con grave movimento del capo si accertò che il sikus fosse sulla cassapanca di famiglia, sotto l’immagine della Madre di Dio.

Il sikus era là, legato però da un laccio al suo gemello. Si domandò con nitidezza insperata chi avesse ricostituito la coppia. Per tutta la serata continuò a chiederselo lanciando sillabe a voce alta, come eruzioni da un vulcano che pareva spento. Alternava le domande a frasi che sembravano un ritornello imparato da piccolo. Maria Concepcion, curva come un’erba invecchiata e resistente, una pianta avvezza a climi inospitali, lo calmava con parole suadenti. Non le comprese. Non riconosceva la sua lingua aymara. La donna parlava ma Javier percepiva solo il tremore della sua bocca, ogni tanto assentiva senza convinzione, casualmente.

Concepcion indicò la sedia. “E non sei contento d’aver riportato con te dal sogno il flauto che mancava?” forzò il tono, sperando di ricostruire un embrione di dialogo. Lo disse anche perché voleva risollevarsi.

Javier non rispose, non si mosse.

“O mi hai detto solo bugie?” continuò ostentando l’accento ridicolo, mentre gli dava le spalle e preparava una zuppa di mais, arachidi e formaggio.


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