Narrativa edita on line

 

Il test di Caino

un racconto di Marco Righetti


Sono tremendamente piccolo, di porcellana, una cannuccia mi esce dalla bocca per respirare. Il rosa mi è sparito dall’incarnato, perciò sono costretto a succhiarlo dove lo trovo, lo tolgo dalle guance delle persone, dalla pelle di chi mi sta vicino. Vampirizzo gli altri per prendermi il rosa e metterlo in circolo, altrimenti  mi si ferma quello che è restato del cuore, smetto di pensare, di comprendere, piombo nell’indistinto di un soprammobile. Penso a quello che succederà quando si guasterà quest’organismo incredibile. Spesso sento una mano che mi afferra e mi tira a sé, come una radice che mi vorrebbe riportare alla terra, all’acuto di un seme o al nonsenso di una deiezione animale. Sono al confine tra le cose e l’umanità. La vita è un vestito che non ho mai messo del tutto, costretto come sono all’inaudita durezza del corpo, e all’immobilità che l’accompagna. Sono un mostro, l’essere più strano prodotto dall’industria umana, quella che fa figli alti performanti e trendy, o accartocciati come ulivi, avvitati su se stessi come eliche. Oggi i prodotti alla moda sono figli esuberanti e vincenti, ma c’è sempre il rischio che qualcosa vada storto. I genitori dispongono li vogliamo conformi ai nostri desiderata, ma è possibile che si ritrovino poi figli eterei come bolle che scoppiano, aquiloni che non fai in tempo a tenere perché già sono volati via e ti resta solo un filo rotto in mano. La vita oggi non è come una volta: l’uomo ha imbrigliato la natura con camicie terribili, l’uno ordina l’altra esegue. Non esiste più il caso, le responsabilità sono aumentate da far venire le vertigini, tutto è addebitabile a qualcuno. Il bianco e il nero sono il giusto e la perdizione, la moneta non può stare in equilibrio, non ci sono gradazioni. Nessun fallo si può più perdonare, chi sbaglia paga anche se il debito è prescritto, perché la legge ha una memoria infinita. Programmare un figlio è come portare il cellulare all’orecchio, digitare un numero e aspettarsi la naturalezza di una risposta; quando questa è assente o deraglia si va verso l’ignoto. Io sono la risposta che non doveva darsi, il nuovo limite dell’umano. Ho ridotto l’impossibile.

Si è visto subito, appena uscito alla luce. Le mie cellule, a contatto con l’aria, hanno prodotto una sostanza strana che poi è diventata simile a porcellana, una volta raffreddata. Non c’è stato nessun errore, hanno detto gli scienziati; io sono il prodotto estremo di quest’epoca avanzata, senza ritorno. Non so quale centro programmazione figli abbia consigliato mia madre, che ha creduto di abbracciare una maternità pilotata da macchine. Mia madre ha il corpo come un’anfora greca, il volto è un vaso d’erbe con due fiori azzurri, sbiaditi: mi guardano e non comprendono. Sono appassiti precocemente, me ne accorgo quando un refolo solleva la ciocca dalla fronte e scopre il suo sguardo allargato dal timore, da uno stupore totale. 

Sono insensibile alla pioggia e al freddo. Sono il piccolo assassino del calore umano, ho una volontà tremenda perché sono il prodotto di atti di volontà altrettanto determinati. Forse quando sarò più vecchio riuscirò a parlare correttamente, ora so solo scrivere ma ho bisogno di una temperatura elevata, di un sole che infuochi mattonelle e asfalto: perché allora anche le mie mani si ammorbidiscono, l’involucro che mi contiene somiglia un po’ più a un corpo e si fa duttile. Pronto a essere amato. Nessuno è presente alla mia trasfigurazione, morirebbe per la calura. Quando il caldo è rovente mettere giù righe mi dà un’ebbrezza imprevista che compensa e vince lo stesso calore, crea un turbine di freschezza che naviga tra le parole come una poesia.

Scrivere è l’unica abilità di questo corpo assurdo. Ma prima c’è il mio innato bisogno di rosa. Quando non ho qualcuno a cui succhiarlo perdo le forze e avvizzisco. Eppure non è una fine ma un inizio, e la vita non sta prima ma dopo la morte. La morte per me non dura un batter d’ali e poi, signori, il vetro non si appanna perciò lui è spirato; è una compagnia costante, la certezza di essere nelle mani di qualcosa di più grande, se qualcun altro non mi riporta in vita. O è cadere a terra e spaccarmi. Cado perché non fanno attenzione a me. Chi mi vede la prima volta resta in bilico tra meraviglia e avversione; dopo qualche minuto il disgusto si fa così nitido che esplode a ridere.

Le mie vene sono la colla impiegata da mia madre per riattaccarmi, la sua pazienza un tempo era straordinaria. Non ricordo quante volte mi abbia ricostruito. Allora sfioravo anch’io l’emozione: vederla con il capo chino, remissiva e dedicata come in un quadro di Silvestro Lega, mi spingeva verso un’immediata riconoscenza, che però non poteva far velo alla realtà. Mamma, anche stavolta la colla è l’unguento che trasuda dal tuo affetto e mi ha sanato; eccomi, sono quello di sempre, la risposta degenere a quello che avresti voluto.

Ora non ne può più, perché qui ogni istante continua a essere senza precedenti. Ogni tanto lei si assenta, mi rinnega, abbandona la mia stagione assurda. A darle senso però mi basta poco: una maestra una volta mi disse Omero pensò a te quando scrisse ‘l’aurora dalle dita rosate’. Da allora l’aurora è il momento più intenso della giornata: ne catturo la tinta, il respiro, l’illusione. Quando succhio il colore prediletto l’adulto di solito non se ne accorge subito. Dapprima gli tolgo i pochi grammi di dolcezza rimastigli. Poi passo alla pelle, gli prelevo il chiaro dall’incarnato. In ultimo la voce: ne estraggo i timbri più caldi. Tutto mi serve per vivere.

Non amo frequentare gli egoisti, non c’è rosa nel loro dna. Sono un opportunista, devo esserlo. Preferisco gli ingenui, i perdenti, gli umiliati: tutte persone che soffrono, che hanno quel calore umano che il mondo gli ha rifiutato e loro conservano come un tesoro. Glielo tolgo direttamente e vivo, tanto loro non saprebbero che farsene, adesso. Mi correggo: non amo gli egoisti a parte me stesso, naturalmente.

Un ricercatore squattrinato in cerca di successo ha saputo del mio caso. Mi ha proposto pubblicamente come test per rilevare il grado d’umanità presente negli altri. Sottoponetevi al test del bambino di porcellana, scoprirete se siete Abele o Caino. Mia madre non è mai riuscita a mettermi un nome, si può mai darlo a un soprammobile? Ora finalmente ce l’ho: io mi chiamo il test di Caino. Il problema è che quasi nessuno vuole farlo. Ma anche qui c’è stato uno che ha iniziato. Nel sottoporsi alla prova sorrideva nervosamente. Mi si è seduto davanti. Se mai fosse concepibile per me, avrei dovuto ridere anch’io. Aveva una molletta che gli tirava su i capelli scoprendogli orecchie lunghe e occhi sporgenti, le labbra due lamiere senza colore, il naso spinto dentro la faccia, forse un pugno preso da qualcuno. L’assenza di rosa lo fa somigliare a un uccellaccio raro, pensavo, quando il calore umano sparisce anche il corpo si trasforma e diventa altro, ogni brutto è a suo modo irraggiungibile, non sono solo io il mostro. Basta guardarlo, quest’uomo: la mancanza di misericordia è nei suoi stessi processi vitali, nella modificazione dei tratti somatici. Questo pensavo mentre quell’essere inelegante si avvicinava a me e porgeva la faccia alla mia cannula. Ho iniziato ad aspirare. È questione di secondi e non troverò più nulla, credevo. Lui mi fissava in modo ambiguo. Nel volgere di pochi istanti il misuratore è finito invece nella zona riservata alle persone buone, ai santi di una vita dedicata agli altri. Le mie teorie sconvolte, dunque. Non terminavo più di succhiare il rosa. Il test di Caino ha trovato un nuovo Abele. Il rosa mi ammorbidiva meravigliosamente, un’emozione dirompente mi scioglieva tutto, era la prima volta che mi accettavo, un’inedita dolcezza mi indicava una comprensione nuova.

Solo pochissimi altri hanno fatto il test, tutti con esiti scoraggianti, purtroppo, perché ho bisogno del rosa per sopravvivere. Nessuno è venuto, oggi, per farsi misurare da me. Sono diventato un giudice, senza volerlo. E così ora ho meno visite di prima, ormai ci sono solo mia madre, stremata, sempre meno presente, e i bambini che mi stanno intorno e ridono perché non hanno mai visto nulla di simile. Li invidio, bambino non lo sono mai stato. 

Qualcuno, ascoltando i miei pensieri, ha osservato: se si tratta di misurare il grado d’umanità perché non chiamarlo il test di Abele? Ve lo dico io: fra due termini fa sempre più effetto quello di segno negativo. E poi è la storia a imporlo, pensate all’Accademia della Crusca: se doveva sceverare la farina dalla crusca, la lingua pura da quella corrotta, sarebbe stato più giusto chiamarla ‘Accademia della Farina’. Al riguardo il Tommaseo osservò: di questo passo anche la scienza del bene si chiamerà scienza del male. Ma il nome dell’Accademia non cambiò. E anche io sono rimasto il test di Caino. 

*     *     *

Sono passati anni, è incredibile, sono ancora, diciamo così, vivo. Ma ora non mi limito a guardare con i miei occhi mobili, perfettamente umani, vado oltre. Ho provato a dimenticare quello che sono e ci sono riuscito. Ora vivo dentro le cose che mi stanno intorno: sono il bambino che mi strapazza per capire di che razza io sia, sono la lente di chi mi scruta per catalogarmi, la domanda che gli cade dalla bocca: come può darsi un’emozione immobile? Io sono il corpo fermo di chi non può aprirsi al cerchio morbido di un affetto, ed è rimpicciolito assumendo un’altra consistenza. La mia è una forma messa addosso alla disperazione, un modo per congelarla. Ma anch’io passo.

Mia madre è più preoccupata che sfinita, ha chiamato un pediatra (un tempo stavano qui tutti i giorni). Appena m’ha visto, il dottore non ha potuto trattenere una risata incontenibile, assordante. Mi ha parlato ed esaminato. Gli ho fatto cenni con gli occhi, come le bambole o quelli spolpati da un male diverso dal mio e altrettanto grave. Ha concluso che non devo assolutamente cadere, la prossima volta sarebbe fatale, nessuno potrebbe più rimettere a posto le miriadi di frammenti che ormai mi compongono. Il mio sguardo subumano è l’unica difesa contro i pericoli. Adesso se qualcuno sta per farmi cadere gli lancio un’occhiata di terrore, che gli giunge carica della mia irripetibile, grottesca espressione: non può non accorgersi di me. Mia madre è insorta, no, ci sono sempre riuscita e ce la farò ancora, è figlio mio, dottore, non suo: lo aggiusterò ancora, se mai dovesse cadere. Il dottore l’ha lungamente guardata quando ha pronunciato la parola figlio. È stato un atto d’orgoglio che l’ha riscattata, inaspettato: ora so che lei non ha mai smesso d’essermi madre.

Ma l’insidia maggiore è un’altra, è la conseguenza di tutte le volte che mi sono spezzato, e non si può far nulla per allontanarla. Se quest’estate torrida continuerà a stendersi ancora sulla mia pelle nei prossimi giorni nessuna colla reggerà più e le mie parti si staccheranno senza rimedio.

La comica sta finendo senza musica, del resto non ce l’ha mai avuta. Vorrei che questo monologo privo di applausi (perché senza spettatori) terminasse mentre scrivo, mentre celebro quest’esistenza mostruosa e impercettibilmente nuova. Come se domani, svegliandomi in questa o in un’altra vita, diventassi davvero un essere umano.


Racconto pubblicato su: http://www.larecherche.it/testo.asp?Id=1689&Tabell...