Scrivo romanzi, racconti, poesie,
atti per il teatro

 

Poesia

Poesia Edita


DIRETTE (Lietocolle, Faloppio 2006)

Presentazione di “Dirette”, giovedì 23.11.06, alla libreria Odradek.


Lauretano:

Il primo dato di questo libro è che nasce da un lungo travaglio di lavoro su cui ha influito probabilmente la formazione di tipo giuridico dell’autore. C’è infatti un labor limae che appare evidente anche a chi non conosce queste poesie. C’è una stratificazione di queste poesie nel tempo, che le distingue da certa produzione un po’ più corriva che va di moda oggi. Porto l’esempio dell’ultimo inedito (ex-inedito, ormai) di Montale, raccolto dalla sua colf.

Sono poesie difficili, non strizzano l’occhio al lettore, non indicano una comunicazione immediata, è una poesia che affonda pienamente nel nostro secolo di nascita, nel ‘900. Tutto è stato rovesciato nel ‘900, dalle rime alla metrica, da quando anche in Italia il simbolismo ha decretato il suo diktat.

Le parole di queste poesie non restano in superficie , sono un amo che va a pescare nel profondo di noi, nella psiche. Ciò che chiedono è la partecipazione del lettore nel processo di attribuzione di senso. Quando Righetti dice “dentro di me c’è il tempo che plasmava castelli”(p.43) manca un’indicazione concreta, non c’è una semplificazione del messaggio, anche se non mancano assonanze, giochi linguistici. C’è piuttosto un’apertura di stimoli: quando accosta “castelli”  a “pastelli” l’autore non dice “da bambini usavamo i pastelli”, ma “tu lettore devi essere stimolato a uscire dal solito significato di parole”. Il che praticamente avviene da Ungaretti in poi, con la grande importanza delle singole parole e della collocazione delle stesse sul foglio (il famoso spazio bianco).

In Righetti c’è un richiamo alla verità della parola. E anche una traccia, comunque: in ogni poesia c’è almeno un verso, un’espressione che svela il senso, direi un verso-chiave. Trovarlo è scoprire dei gioielli: ad es. “oggi mi è figlio tutto quello che ami”(p.75). E’un verso che da solo fa questa poesia; non parla solo dell’amore ma raggruppa tutto, anzi “raggruma” tutto. Le parole come grumi di significato. Un altro esempio: “in casi del genere è adagio l’annuncio”(p.14): il che significa che la lingua della poesia merita attenzione, riflessione, ci vuol suggerire il poeta. E’ una poesia semplice, ma non facile. Per Petrarca fu semplice raggiungere il Mont Ventoux, non facile.

Marco, chi sono i tuoi autori preferiti, i tuoi ascendenti?


Righetti

La domanda presuppone un gruppo di poeti a cui io sia emotivamente legato. Penso innanzitutto alla grande poetessa rumena Ana Blandiana. Nel suo saggio “La poesia tra silenzio e peccato” mette in evidenza la differenza tra tacere e silenzio: la poesia nasce col silenzio, anzi “la poesia non ancora pronunziata è l’unica grande poesia”. Per dirla con Carifi (nel suo colloquio-intervista pubblicato col titolo “La rosa senza perché”) , la poesia reca in sé il silenzio, che è ciò che la custodisce.

C’è poesia come furia collagistica (come la chiama Eco ) di un Nanni Balestrini, che ho visto alcuni giorni fa alla libreria Croce. E poesia come verso piano, quel tanto che sia sufficiente a ri-fare il mondo (senza avere ovviamente la pretesa di riuscirci) per poterlo poi ri-guardare. Tornerò dopo su questo concetto.

Alcune poesie del libro non hanno titolo: titolo vuol dire limitare, imbrigliare il lavoro del lettore. D’altra parte quelle che hanno titolo danno al lettore solo un orientamento, una linea da seguire.

I destinatari il tu della poesia è chiunque di noi. E’ un tu costantemente presente. Celan diceva che la poesia è direzione verso un tu . Ma questo tu, alla fine, è un diverso nome della libertà. La libertà può essere un invito, come quello a p.60: “partendo/dimmi...l’irreparabile gioia”. Ossimoro: perché la gioia è irreparabile? Perché è così inafferrabile e così vera che quando la cogli nulla può cancellarne le tracce. Subito dopo aggiungo “le lettere inviate a busta aperta / i contenuti in affido”. Una linea portante del libro è il rispetto profondo dell’essere altro. Lévinas in “Totalità e infinito” esplicita la sua concezione dell’altro come trascendenza di ogni comune misura di possesso o di conoscenza. L’altro si manifesta come volto, come invito a una relazione che non può essere appropriazione. Nelle mie poesie l’interiorità altrui è domanda che mi interpella e che rimuove il sensibile già preformato, il pregiudizio di partenza. Si tratta di mettersi in gioco, di aprirsi, come direbbe Gadamer, alla “replica dell’altro”. E’ un po’ come se, mutuando la lezione di Buber sul rapporto Io-Tu, l’io narrante si costituisse solo rapportandosi all’altro.

E l’altro può essere mio figlio, un bambino di 9 anni, e tutti i bambini del mondo: scrissi “Polpastrelli” dopo aver visto mio figlio poggiato a una vetrina natalizia. Perché, quando gli adulti scelgono, i bambini stanno già avanti? Una mano di un bambino su un vetro pulisce tutto il resto, rimuove il nostro comune modo di vedere: sta a noi “entrare” dentro quelle dita. Il bambino si affida a quell’idolo casto del suo desiderio, probabilmente al giocattolo, e lascia alle spalle tutto il resto; quindi sta in vantaggio su di noi perché ha raggiunto la pulizia del resto, il significato della relazione con le cose. Forse il bambino ha risolto il problema della conoscenza. E’ questo l’impulso che mi dà stupore e gioia.

È vero anche il contrario: non saprei distinguere il movimento attivo da quello passivo, quando raggiungo l’altro attraverso la parola poetica e quando sia questa a rivelarmi la presenza altrui. A volte scrivere poesie equivale a leggerle.

Il pensiero poetico cerca alleanze nella nostra memoria letteraria. Come dice Pina de Luca nell’introduzione a “Poesia e filosofia” di Maria Zambrano, all’origine della memoria c’è qualcosa di perduto, qualcosa che chiede di essere nuovamente guardato. Guardare di nuovo è far rinascere. Ecco uno dei veicoli della poesia. Ma anche un suo effetto. Poesia come mezzo per allargare ciò che è stato visto di sfuggita, per restituire un tempo largo. Non a caso in “Vita è come prescritto”(p.80) “il bruco ruba lentezza al tempo perduto”.

Coen (direttore del quartetto “I solisti di Roma”, docente):

Hai pubblicato a 48 anni il tuo primo libro.


Righetti:

Direi che la prima pubblicazione è un po’ come la storia del nostro essere al mondo. Appena nati siamo strumenti a fiato in cui qualcuno soffia melodie dolci ma perdute nella nostra memoria di base. Dopo l’adolescenza siamo noi a tirar fuori i suoni che vogliamo. C’è però un processo di ritorno di quelle melodie che impiega un periodo più o meno lungo per emergere. Io ho sentito adesso l’urgenza di questo risveglio.

Lauretano:

I riferimenti di viaggi, frequenti nella sezione “sfidanti”, nascono da occasioni reali o inventate?


Righetti

No, prevalentemente sono viaggi dell’anima. Mi sono documentato molto, ma non è questo il punto: l’occasione, vera o letta che sia, serve a tirar fuori l’emozione della vita.

In questa sezione intreccio il mondo giuridico con quello naturale. Si prenda “Correità” (p.64): il paesaggio peruviano, aspro, è indizio di colpa, di “responsabilità sovraesposte”.

Come dicevo, poesia come movimento dell’interiorità verso qualcosa che avviene e coinvolge. Perché, ad esempio, “nevralgie di fiumi”? Perché scorrono sotto pelle. In “Cordillera” (p.63) il poeta si identifica col regno animale o vegetale “mi appoggio a schiene di condor”, “invecchiano i miei tronchi”.Analogamente in “Conchiglie” (p.49) sono stato “arsura e sabbia”. Tutto questo perché la poesia ci fa trascendere la nostra natura e ci ri-identifica: in tal senso poesia è esperienza di una presenza, anzi, di un’appartenenza perduta.


Lauretano

D’altra parte la parola “meati” in “Correità” scatena rime, assonanze, anagrammi. Potremmo dire che in questa lirica “meati” è la parola che muove foneticamente intorno a sé le altre. Vorrei chiedere a uno del pubblico: perché in “Cordillera” ognuno ha “spalle maestose”?

Coen: Perché ognuno sente su di sé il paesaggio maestoso.


Righetti

Sì, e qui s’impone la riflessione sullo stesso titolo della sezione “sfidanti”. Non sono  ovviamente persone, è qualcosa di forte che va a scavare nella nostra sensibilità. Lo stesso titolo del libro “Dirette” vuol significare cose che di solito non vediamo. Nessuna poesia nasce studiata. Lo studio va sulla lima, non sulla scaturigine. Questo mi dà modo di parlare di questa poesia come poesia delle origini. Prendiamo ad esempio “Conchiglie” (p.49).


Lauretano

La conchiglia è una cintura di qualcosa che si è formato in altre ere geologiche, perciò la mano che la rovescia  “si aspetta che escano/ con l’acqua serbata/ le ragioni del mondo”.

Chi è che prende in mano una conchiglia per aspettarsi di trovare le ragioni del mondo? Ma questo è il vero della poesia.


Lauretano

E’ una poesia sulle origini che però non ricordiamo.


Righetti

Poesia contro l’inautenticità dell’esistenza: rovesciando i termini (di derivazione heideggeriana) dello psichiatra Binswanger (“lo psichiatra che amava i filosofi” si intitola un saggio), non mi trovo più tra un passato non scelto e un futuro da scegliere. La poesia, nel senso che le attribuisco, mi permette di scegliere il passato. Come avviene in “Patto di terra”(p. 37), dove scelgo al passato le conseguenze di un atto normalissimo, una donna che attraversa la strada e diventa un’Eva che traghetta la discendenza sul lato opposto della vita, quello dove il sole ha sempre con sé anche l’ombra.

O nella lirica di p.26, dove il passato è “salvifico celato patto di biografia a lungo attesa”. Il passato è “un pomeriggio in avanti”, le lotte dipinte sulla ceramica attica diventano azione, predatori che costringono il poeta a difendersi perché sperimenta su di sé la storia, il “peso tra inizio e fine”. La donna del mare, di memoria ibseniana, “stampa” tutto del suo passato proprio per restare più fedele a se stessa, cioè “sul lato più simile / alla superficie del mare” (p.79).

Alcune liriche hanno a monte un indizio mitico o comunque un ordine già dato, un qualcosa di preformato che avviene. Il poeta si pone all’inizio di questo avvio, e ne fa partecipe il lettore. “Hanno sistemato metro su metro (p.77), oppure “Pésca in azzurro/ il fiore alpino” (p.74). In “Raccolte” (p.36), una ragazza sceglie i venti, cioè il momento d’entrata. Non è il poeta che invoca la Musa, è la donna che reca con sé il senso delle scelte che si danno nel reale, la sua è un’irruzione normalissima nella storia. Il verso “sali” è un verso fortissimo. La ragazza sale sull’autobus, “dirimente” perché interrompe lo sguardo idillico del giovane e scioglie ogni possibile sviluppo. Ma quello sguardo, le “raccolte” del giovane, non va perso. Nulla deve andare perso dell’altro. Quelle “raccolte” non cadono per terra, ma confluiscono nelle tasche della giovane. Ecco allora la poesia come ipotesi di prosecuzione salvata del reale.

Il che può avvenire anche laddove le “raccolte”, invece, sono disperse: i ”coriandoli/dall’aliante” sono “felicità migranti, /non assegnate” (p.56).

Altrove àncoro il presente al possibile e lo faccio proseguire verso un avvenire diverso, ma realissimo: “ci sono posti in più/nelle ore visibili” (p.40). Lo sguardo spazia e trova un orizzonte di senso. Anzi “completa gli esterni”(p.28).


Laureano:

Perché “esuberi leggeri” in “Delfini”(p.35)? Perché nulla sarà irrimediabile, tutto sarà perdonato.


Righetti

Torna in “Delfini”, come per il bambino alla vetrina, il discorso sul “pregio della mano” che fa silenzio intorno. Il discorso sulle origini è centrale in “Omphalos” (ombelico, p.33). Il premio Nobel Seamus Heaney nel saggio Preoccupations (Attenzioni) collega la genesi della sua poesia al luogo generativo, al primo luogo, all’omphalos: poesia come luogo dell’infanzia storicamente determinato e luogo del suo superamento, non ancorato a riferimenti spaziali. Ambivalenza che forse è partecipe di ogni poesia. Per me poesia è bisogno di ridefinizione del luogo. In proposito Kavanagh parla di “paradiso senza luogo” e Zanzotto dice che il fine più o meno confessato di ogni poeta è un non-luogo, il paradiso.

L’esplicito rinvio (nell’ultimo verso di “Omphalos”) a Henry Moore permette di tentare un parallelo: come Heaney scava nella memoria, Moore scava nella materia alla ricerca di complementarità tra cavità e masse nelle sue famose figure giacenti e la donna è grembo archetipico.

Il tema della maternità viene richiamato nelle due liriche pp.14-15.

La prima di queste, “Esempi” , lega la maternità a realtà (apparentemente insignificanti)del mondo animale (realtà che tornano anche altrove, a p.27, a p.80),e al momento in cui si arriva in una clinica: è molteplice e unico il luogo, cioè sono tutti esempi di annuncio.

La seconda mette il fuoco su quel rispetto di cui parlavo prima: “Non posso toccare / la vita che ti stai promettendo”.


Lauretano

Perché, a p.77, è felice il disgelo?


Righetti

Perché la Neva, nel momento del disgelo, scioglie prudenze eccessive, è l’inverso del gelo, anzi: l’interruttore è “ardente”.Ma levando il ghiaccio ci scopriamo al mondo affilati (il ghiaccio può tagliare), tanto che l’erba, frutto del disgelo, è quasi eccessiva, ci fa cadere.

In “Aquilone” (p.52) c’è il senso della comunione: l’urgenza di questo libro è non perdere un’altra urgenza, quella dell’interiorità, cercare questo guizzo di infinito (l’aquilone è veicolo di cielo), che non andrà perso, perché se tu sarai “aquilone”, io sarò “filo”.


Dott. Di Santo (collega Siae)

Marco, c’è qualche poesia autobiografica?


Righetti

Sono in realtà tutte immagini che vedo avvenute nell’altro e quindi, per la proprietà transitiva dell’io-poeta, avvenute in me. A differenza di Mia Lecomte, autrice di “Autobiografie non vissute”(2004) avrei potuto intitolare questo libro “Autobiografie vissute”. Resta ineludibile, sotto tale aspetto, la geniale aspirazione dantesca “s’io m’intuassi come tu t’inmii” (Par. IX, 81). Mi immetto nell’altro e quindi perdo la mia autobiografia. Forse non c’è neanche una sola poesia interamente autobiografica. “Bandiere” ad esempio risale a un viaggio realmente fatto (a differenza di altre poesie con riferimenti geografici) : era il 1968 avevo 10 anni, i miei mi portarono a Barcellona. Mi sono tornate in mente quelle immagini, vi ho messo dentro il vento: una donna che esce per strada al mattino e svolta sul rettifilo, c’è un senso di apertura. Ma è una donna che vedo con gli occhi di oggi, non con quelli di un bambino.

Questa prudente aderenza al genere autobiografico dovrebbe fungere da vaccino  contro eventuali (sempre latenti) ricadute nel frammento insostituibile, vissuto dal poeta e presentato come assoluto o, sul versante opposto, come cronaca. La mia storia personale è, al massimo, l’occasione di una qualche “autobiografia vissuta”. Del resto la libertà del poeta è quella di innestare aperture: a p.57 la descrizione di un evento, di “cisterne” (termine di ascendenza evangelica) che hanno perdite induce un bisogno di rinnovamento: allo sfondo doloroso delle rondini ( le “piccole croci nere” come le chiama la Deledda in “Canne al vento”) segue l’apertura finale “solitudini evase. / Spruzzi di cielo.”

Guardando alla struttura delle liriche risulta evidente la diversità rispetto alla poesia in forma di prosa (considero tra gli esempi migliori quelli di un Giampiero Neri, Alberto Bertoni ha rilevato che in Neri non vi è nemmeno una sillaba di troppo). Quanto ai debiti, “Abbinamenti” (p.18) deve senz’altro un impulso a “Felicità raggiunta, si cammina” di Montale, anche se risulta superata la sua disillusione, il suo pessimismo razionale.


Lauretano

Mi sembra importante tornare sul titolo del libro.


Righetti

Vuol dire immagini prese come eventi. Qualcosa che porto verso un futuro di salvaguardia, anche attraverso una strada corta, nitida, eliminando il superfluo: attraverso una strada “diretta”.

E’ una salvezza diversa da quella, fisica, più drammatica, che Maura Del Serra affida alla parola, “al legno di questa parola che ho in pegno” come dice in Scampo. Più che un restare a galla la parola poetica è per me un portare a galla, nella presunzione che ci resterà senz’altro, per una inconscia fiducia nella proprietà naturale della poesia. E qui, a proposito di fiducia,  mi riallaccio alla prefazione di Gianfranco alla mia raccolta.


Di Santo

Il titolo è un inganno, il lettore non le trova affatto poesie “dirette”


Lauretano:

“Dirette” è un titolo polisemico. Si può intendere sia come frontali, immediate, sia in altro senso, più profondo, che riguarda l’analisi del linguaggio: “Dirette” perché senza sovrastrutture. Il problema che pongono questi testi è un problema di comunicazione. Ma paradossalmente, è un problema non del poeta, ma del lettore. La lingua quotidiana è molto indiretta, è molto strutturata. Un poeta che porta in luce la realtà interiore salta immediatamente la struttura comunicativa che fa parte della relazione.

C’è poi una terza lettura di questo titolo nel senso di “poesie aventi direzione”, cioè “dirette” verso qualcosa, verso questa salvazione. Sotto tale aspetto appare evidente una certa vocazione aforistica. Certi versi sono bombe di significato.


Di Santo

C’è un costante riferimento alla donna, non trovi?


Righetti

In una lettera al Capponi, Tommaseo diceva che un cuore di donna è cosa più ghiotta d’un testo inedito. La mia è un’indagine sull’io meno conosciuto: come appartenente al genere “uomo” intuisco l’io maschile altrui, perciò mi stimola molto di più indagare il genere “donna” sul quale ho meno informazioni “dirette”. C’è una sfida a comprendere un mondo diverso. Per questo, anche per questo, la poesia mi ha sempre entusiasmato: perché fa presto, sotto tale aspetto, a ri-congiungermi alla donna: una sorta di ricomposizione che supplisca alla realtà, invariabilmente frammentaria, legata a singole figure femminili più che alla donna in sé.

Un altro filone ispiratore dello scatto fotografico-poetico è quello della pittura: entrano Piero della Francesca, Giambellino, Vermeer , la stessa “Tomba del tuffatore”.

Perché trovo “Piero della Francesca all’uscita comune”? (p.19) Perché Piero inserisce la storia comune nello sfondo di un perenne svolgersi, inserisce il senso del tempo su uno sfondo assoluto: cioè riesce a coniugare l’uscita comune con le capitali in atto, ma senza la minima eloquenza. Per questo le sue risonanze naturali sembrano addirittura calare incuranti.

In “Scrivimi” (p.39) parlo con una donna di strada, e immagino di averla conosciuta in Grecia, 2000 anni fa. E’ un altro esempio di quello “scegliere il passato” di cui parlavo prima. Nessuna parola è messa a caso. In Grecia lei mi indicava il pastore errante fra le stelle, cioè mi spiegava il mito di Boote (il “tardo Boote” di Omero, Catullo, Monti, Foscolo). Poi l’epilogo. Attuale, stringente (non a caso è l’unica poesia che abbia una data, sia pure incompleta).

Pubblico: Perché Un’Atene (p.32)?


Righetti

Perché è una delle possibili città di Atene che io vedo. C’è un gioco scoperto, nel finale, tra “scendono” e “salgono”, e poi ecco l’identità conclusiva: “storie nella preluce”. Da un lato la poesia va a pescare elementi prelogici. Dall’altro nulla finisce con la poesia: le parole, liberate dalla lettura, vivono una loro nuova semantica, che è poi quell’urgenza da cui nascono.