Narrativa edita on line

 

Una storia romana

un racconto di Marco Righetti


Questa notte si avvicina come un ferro rovente, un arnese di tortura: fra poche ore imprimerà la parola fine sul suo volto, murando viva ogni altra ragione. Pare che qualcuno al Quirinale pianga e preghi ipocritamente per lei. La piega che hanno preso i fatti è una muta di cani che ora scorrazza inferocita e imbelle fra le mura, le chiese, le ville. A nulla sono valsi i privilegi di un blasone, né l’avvocato di grido è riuscito a trovare – nel comportamento di lei – una qualche esimente che possa alleggerirne la posizione processuale.

Prigioniera nella Corte Savella, nemmeno s’accorge del tanfo notturno degli escrementi equini, del caldo, delle zanzare. È straziata dall’immagine di quel corpo orripilante che non voleva morire. Sente una mano sulla gola, crede di soffocare; si divincola, sbarra gli occhi scuri (pozzi per immagini terribili), il buio è un frate guardiano senza volto, un saio senza alcuna persona dentro. Lei si avvolge nel chiaro della pelle giovane, si gira sul fianco, le braccia abbandonate davanti, la testa chinata indietro: sembra il corpo di santa Cecilia che fra pochi giorni verrà ritrovato incorrotto, o la statua omonima che un ventitreenne di genio scolpirà per celebrare il rinvenimento miracoloso. Ma la sua, a quanto pare, non è la vita di una santa.

Ora ricorda (episodi improvvisi rapinano lei e la città, sono lontanissimi i tempi  del magnifico Agostino Chigi e delle sue feste), ricorda quando l’anno prima venne fermata per strada da un giovane ‘dipintore’ vestito di nero, la barba incolta. Le aveva chiesto brutalmente di posare per lui, non s’era nemmeno presentato. Lei, esperta nell’arte d’offrire, gli schiuse un sorriso malizioso per sondarne le reali intenzioni e far conoscere le proprie. Certa d’averlo già in pugno, tirò fuori l’orlo stracciato d’un ferraiolo e lo fece dondolare con sottile intento ricattatorio, l’altra mano sull’anca, io potrei raccontare a qualcuno molte cose di te…  Lui collegò all’istante quel pezzo di stoffa a un’aggressione in cui aveva usato la spada, ed estrasse un pugno di scudi.

La ragazza avrebbe voluto presentarsi la sera stessa ma a Roma, in quel crepuscolo di secolo, c’erano pericoli maggiori di quelli denunciati da Giovenale quasi 1500 anni prima, e vigeva il coprifuoco imposto dal papa Aldobrandini, il papa ‘di vita incolpabile e mente retta’ che voleva eliminare, fra l’altro, criminalità e malcostume. Scarmigliata e preziosa come lo poteva essere una nobile a vent’anni, il giorno dopo fece il suo ingresso sfrontato nello studio di quell’Angelo Maudit, indossava un abito di broccato, sfolgorava in oro, s’avvicinò come la vampa d’un braciere, nello sguardo c’era un lancio di dadi, una bestemmia sonora.

Dal soffitto entrava luce obliqua: gli sembrò una madonna pronta a essere trasferita sulla tela (ormai aveva appreso tutti i trucchi dal madonnaro Lorenzo Carli), una gloria che s’incarnava nel seno generosamente esposto, nell’ambiguità della situazione. Quell’ostentata violazione di ogni convenienza era il culmine d’una segreta rivolta. Dall’espressione pensò che lei chiedesse la retribuzione di un’intimità naturale, d’un amplesso liberatorio, trasfigurando così l’azzardo in modesto risarcimento per una vita già violata da chissà quali avversità.

Nonostante l’aspetto il giovane appariva vulnerabile: lei avrebbe potuto scrivervi una storia di sensi e passione, stretti come le funi che tiravano su obelischi e palazzi.

Il corteo di confratelli della Misericordia, di salmodianti e guardie, di popolo al seguito – inclusa la Corte che l’ha condannata alla pena capitale insieme al fratello maggiore e alla matrigna – si ferma sulla piazza di Ponte Sant’Angelo. È alto il palco costruito per l’esecuzione, la calca è impressionante, più tardi nella folla si conteranno alcuni morti. Prima di posare il capo volge lo sguardo all’angelo marmoreo che rinfodera la spada sulla sommità del Castello. La forza di quella scultura non è solo nel suo valore di protezione della città da nuovi flagelli (dopo la miracolosa liberazione dalla peste nel 590), è anche nel suo monito contro l’orrore della morte.

Il fascio di capelli è già sparso a terra, grano tagliato prematuramente. Beatrice e l’angelo, un dialogo a breve distanza, un soggetto analogo a quello scandaloso San Matteo e l’angelo che il giovane pittore talentuoso realizzerà prestissimo per la cappella Contarelli e si vedrà rifiutare. Anche qui le consistenze sono le stesse, la carne e lo spirito, e si tendono una mano. L’angelo è irremovibile nel perdono, il giudice Moscato e l’avvocato Farinacci (lo stesso che invece riuscirà a salvare il Cavalier d’Arpino) svaniscono a contorno, nero fumo, come quello che segnò i primi diciannove giorni dell’ultimo conclave. Il collo nudo di Beatrice è valvola che si sta aprendo in violenta pietà di sé e del padre ucciso, e in conseguente rimorso assoluto, scomposto. Il suo ribrezzo morde verbali e interrogatori. La concentrazione di fatti non verrà riportata negli Avvisi di Roma: gli spettatori già toccano l’efferatezza dell’esecuzione imminente, donne mature vorrebbero segnarle il viso con una carezza, una benedizione. Centinaia di persone la assolvono.

C’è anche lui, sedotto dal macabro rituale: implacabile, spilla nella mente ogni fotogramma. Nel suo studio, poche ore più tardi, incurante delle sorde grida di lei (quelle cui non s’era mai abbandonata), ripete l’esecuzione più volte: indaga l’apertura degli occhi e la vitalità disperata dello spasimo, cambia sadicamente inquadratura alla memoria finché non è sicuro d’aver trovato il punto in cui la vita sopravvive un attimo a se stessa e si affida al viluppo del chiaroscuro, del colore.

Beatrice Cenci vive e muore ancora in privato, ripetutamente, nelle mani di Caravaggio. E ogni volta è una luce diversa, dal soffitto, a riempire di terrore i suoi occhi e riportarli in vita, come se proprio lo Spirito Santo, spiovente dall’alto, si divertisse ad amputare e sanare. Capricci, ormai, del pieno clima della Controriforma. È il prezzo ulteriore che lei paga per l’allestimento di Giuditta e Oloferne, perché siano autentici l’urlo nella testa mozzata, il raccapriccio della scena. L’opera è quasi pronta e sta per condannare il vizio, il male, apparentemente in linea con il recente trattato del Comanini sul ‘fine della pittura’. Peccato solo che Caravaggio abbia provocatoriamente dato all’eroina ebrea il volto della cortigiana Fillide Melandroni, non certo esempio di virtù castigate.

Ma ha scelto lei per ripiego: se non fosse stata parricida avrebbe raffigurato Beatrice nei panni di Giuditta, le avrebbe almeno dato – con la santa decapitazione di Oloferne – la vendetta dell’arte. Beatrice, evidentemente, non ne aveva bisogno.


Racconto pubblicato su: http://www.versanteripido.it/il-racconto-del-mese-una-storia-romana-di-marco-righetti/