RECENSIONI

IL SOLE NERO CHE FORSE IMMOLERÀ, MA DARÀ ANCHE LUCE AL NOSTRO FUTURO

“Cortoromanzo”, e thriller già epocale

recensione di Plinio Perilli


   C’è qualcosa di metafisico e insieme di assoluto, in questo bellissimo, cadenzato e rapinoso “cortoromanzo” (ecco il sostantivo aggettivale ed esplicativo che lo sigla, lo accompagna) con cui Marco Righetti – poeta di talento, riconosciuto e riconoscibile – insieme esordisce nella narrativa e ci infligge… il dono di un inflessibile specchio epocale, insomma di una parabola che sembra quasi evocata, arringata da un giovane, piccolo Buzzati di oggi (si parva licet…). Ricordate  Il grande ritratto, “La peste delle macchine”, La boutique del mistero? Quei racconti strepitosamente improbabili eppure quotidiani con cui il grande scrittore bellunese, ma milanese DOC, risolto e brillante allievo ideale di Franz Kafka, romanzava, elevava il fantastico a componente connaturata, usuale, del nostro beneamato e insieme orrifico assurdo quotidiano…

“… C’è il pattern che si potrebbe dire del cerchio che si stringe” – così Renato Barilli, nel suo saggio La barriera del naturalismo, chiosava, incorniciava appunto il destino e il talento espressivo di Dino Buzzati, i suoi universi proibiti, i suoi brividi inconsueti, intrecciati, angustiati ma anche premiati di speranze e messaggi dell’ignoto – “o dell’affondare progressivo e inevitabile nel gorgo  che con orbite sempre più strette conduce all’abisso; oppure, inversamente, c’è il pattern che sembra riprodurre il ritmo accelerato (…) per effetto del quale il protagonista assiste allibito all’allontanarsi costante e progressivo dei luoghi familiari e sicuri”…

   Pattern è in inglese un termine abbastanza tecnico… (sta per “modello, esempio, campione”: e il conseguente verbo transitivo, “to pattern” significa dunque “usare come modello, imitare, decorare – con disegni”)… Poi ci offre però la esemplare analogia con l’architettura e i più svariati scenari avveniristici, o proiezioni apocalittiche… metropoli e deserto rimati, edificati o annientati d’inconscio…

L’ignoto di Marco Righetti e del Sole nero (Leone Editore, Milano 2012, pp. 121, messo in vendita in quantità industriale e a prezzo modico di pochi cents “gemellato” col quotidiano “Libero”, nel vacanziero mese di agosto) è un Futuro in atto che mentalmente resta ancora troppo lontano, ma pur sempre prodigiosamente vicino, e drammaticamente ritardato, contaminato, corrotto di segreti, quindi pericoloso e inesplicabile insieme…

«…  Gli ingegneri sono disposti a cerchio intorno al tavolo, come tanti occhi di un’unica testa. “Gli eliostati continuano a concentrare radiazioni sulla torre, Freeman, ma non dura… Lightstorm sta pompando energia all’Europa attraverso Tunisia e Italia, ma forse è uno degli ultimi momenti che questo avviene… La centrale rischia la paralisi. C’è poi il problema della temperatura dei sali fusi. Dobbiamo decidere subito cosa fare.”  …»

La barriera del naturalismo è nuovamente oltrepassata, ristrutturata e diremmo ripensata ab imis nella deriva in atto di un Futuro sbilenco e cromato, perennemente in progress eppure deficitario, sfibrato e digitale insieme come un “ultrabook di terza generazione, chassis in alluminio e tecnologia di storaggio ibrida”, che ora magari “si spegne, neppure la batteria tiene”…

«…  Un ragazzo molto meno disinvolto si proietta nell’avventura. Immagina che alla prossima stazione salga una donna, sieda davanti a lui, inizino a parlare e lei gli racconti di sé; il problema è che l’accelerazione del treno si porta via le parole, come se quella di lei fosse una storia minore che non potrà mai essere ascoltata.  …»

Ansia e mistero, bilancio e sentore di decadenza ci abbracciano, ci ammaliano fin dalle prime righe della storia – con quel viaggio e quel Frecciarossa diretto a Milano cui il Nostro si sottopone dopo una telefonata improvvisa, notturna e allarmante del fratello che lavora in Africa, ingegnere-avventuriero e progettista neo-babelico di un Futuro (insistiamo con la maiuscola non per irradiazione o promozione virtuosa, ma semmai a meglio additarne, amplificarne il rischio, il monito) nato già malato, e aggravatosi presto già crescendo…

«…  E adesso la sua voce in piena notte: alle sue parole hanno già cominciato a mancare verbi e conclusioni, la frantumazione è iniziata.

È certo che ora ha visto qualcosa che non va. O lo ha sentito.

Quei monosillabi, “vie-ni-qui-se-puoi-por-ta…” sono asfissianti. Li riascolto: la voce registrata li ripete finché non diventano una filastrocca. Provo a richiamarlo ma non c’è campo.  …»

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Righetti scende dall’elegiaca, inquieta ma pur sapiente traiettoria, dal bioritmo gnomico della poesia, e sale in sella a un romanzo – che sarà pure corto, breve quanto a lunghezza, ma non è mai né a corto d’intensità, né scontato per trama…

La frantumazione è iniziata…

Perché la vera trama – attenzione – qui è l’ansia ancestrale, la paura del domani, il timore di un nuovo che non avanza ma retrocede nel dramma e nel disastro epocale – energetico, emotivo, ergo introiettato, dolente e interdetto, ma insieme rapinoso, inquieto e temprato d’espressionismo…

“… È come se ogni percezione avesse acquistato profondità, spessore irrimediabile.”…

Si capisce subito, intanto, che la vera protagonista del “cortoromanzo” è l’ENERGIA, la proiezione – l’assunzione avveniristica ma, ahinoi, già in atto – di una filosofia tutta contemporanea che è nullificazione degli istanti, dissolvimento e dissolvenza incrociati, accelerati al massimo grado:

«…  Il convoglio torna a sfrecciare, a velocità elevate è facile prendere alla leggera quello che accade, il monitor che sta nella carrozza manda i suoi flash, nulla è importante, il treno e i suoi ospiti sono immersi in questa giostra delle dissolvenze: ogni sequenza è superata dalla successiva, nell’attesa di qualche altra immagine che abbacini vista e udito.  …»

Di questa trama caotica e sfibrata, riformattata e abbacinante, dove forse nulla è importante ma ogni percezione acquista profondità, spessore irrimediabile, Marco ci racconta tutto, non perde né le pause né le parole, né le storie minori né il rischio epocale, l’incubo millenaristico della Storia invece maiuscola, del destino maggiore che infesta il mondo proprio lì dove s’illude o peggio finge di volerlo salvare, rammodernare…

«… il portatile rientra in funzione. Senza saperlo il giovane ha preso alla lettera le ultime raccomandazioni del ministro del Clima e dell’Energia: che ciascuno usi l’iniziativa personale, la virtù della fantasia. Il che vale anche quando l’energia si interrompe e bisogna collaborare al ripristino dell’erogazione.  …»

Ma la trama grande, epocale, riassorbe in sé – come un sublime e romanzesco fiume carsico, sotterraneo – cento altri rivoli nascosti dentro un insidioso deserto di rapporti e di fraintendimenti, cedimenti, tradimenti, stravolgimenti… L’Amore, lo stesso rapporto di coppia, il progresso che in realtà ci annienta e ci travia da dentro, semina per finto alibi della dolcezza una pessima disistima di sé, insomma una dialettica, puntigliosa nevrosi dell’Io:

«…  Intanto Alissa è fuggita, è tornata nella nostra casa di Milano, non lontana da una lapide che ammonisce Nihil cum umbra, sine umbra nihil. Amare è figlio di quel motto: non tollera l’ombra ma la porta con sé.  …»

Splendido motto, gnomico e fervido –: la sudditanza dell’ombra alla luce, ma anche viceversa.

Ci sovviene una pungente, valente riflessione di Elias Canetti nel suo diario del 1942, cioè a dire in piena guerra (cfr. La provincia dell’uomo); a metà tra l’intuizione epocale e la misurazione, la pura dedizione (post)formalistica: “Il romanzo non deve avere alcuna fretta. In passato anche la fretta poteva rientrare nella sua sfera, oggi è passata al film; confrontato ad esso, il romanzo frettoloso è destinato a restare sempre inadeguato.”

Sta parlando del romanzo come genere, eppure lo fa stendere in fondo sulla chaise-longue dello psicanalista, e senza che lui lo guardi, gli fa proiettare sul muro più lontano tutte le sue esitazioni o commozioni circa la Storia, dentro (e oltre) la Storia:

“Il romanzo, creatura di tempi più calmi, può portare qualcosa dell’antica calma nella nostra attuale precipitazione. Per molte persone potrebbe servire come un rallentatore; potrebbe incitare a perseverare; potrebbe rimpiazzare le vuote meditazioni dei loro culti.”

E dunque, perché il romanzo oggi – terzo millennio, era di tempi mai più calmi – ha terribilmente fretta? Perché preferisce essere “corto”, ma senza in fondo più nessuna soggezione o maldestra, agile emulazione verso il cinema?…

Andando avanti oramai così attualizzandosi, concretandosi in immanenza incarnata di profezia, perfettamente dentro, ahinoi, la sua idea sia in fieri che in progress di futuro – nemmeno più forse gli bastano quelle virtù, o meglio “proposte per il prossimo millennio”, che ci additò  Italo Calvino nel 1985, quasi trent’anni fa (e si sentono tutti), tra gli appunti delle sue non finite, ed editate postume Lezioni americane: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità – la sesta solo ideata, sarebbe stata riservata alla Consistenza…

“La fine di ogni libro è la fine del mondo,” – ha scritto del resto Marguerite Duras, scrittrice passionale, nevrotica e impennata, non certo algida, neoilluminista come Calvino, in uno dei suoi ultimi libri, Il nero Atlantico – “è così ogni volta e poi torna, come la vita.”

Pensavamo poi, leggendo meglio o addentrandoci in questo delizioso romanzo d’esordio di Marco Righetti, a quanto il romanzo giallo abbia dato proprio alla storia moderna del romanzo tout court – riuscendo sempre a tributarle, e a concedersi, stimoli e istinti nuovi… Dal Chandler de Il grande sonno sino al Simenon non tanto del “canonico” commissario Maigret, quanto dei veri e propri romanzi-romanzi (certo, ancora d’atmosfera poliziesca): e parliamo di libri struggenti e inopinati, come Tre camere a Manhattan, L’uomo che guardava passare i treni, La neve era sporca…

Anche in Italia, negli ultimi due decenni, almeno, non sono stati proprio i nuovi “giallisti”, a prendere un genere che era ormai fermo a Scerbanenco… e a renderlo capace di raccontare, mimare i vizi e i vezzi, i problemi ma anche le aspettative, le soluzioni tutte della nostra Modernità? Andrea Camilleri, ma lo stesso Vincenzo Cerami, Carlo Lucarelli e Marcello Fois, Niccolò Ammaniti e Giuseppe Ferrandino o Raul Montanari… sono i principali tributari di questa intrigante new wave virata d’ombra e, qua e là, insanguinata di violenze e ignominie le più svariate, allarmanti e rivelatorie… Altro che controletteratura!, Controletterature, come Bernard Mouralis fin dal ’75 titolava la sua ricca indagine su “Istituzioni letterarie e comunicazione di massa”… Leggiamo infatti appena l’incipit del paragrafo sullo “Statuto delle controletterature”, per capire e carpire invece i passi avanti – evviva – in termini di romanzo poliziesco et similia…

«…  Letteratura orale, letteratura divulgativa, melodramma e romanzo popolare, romanzo poliziesco, fumetto, titoli di giornali, cataloghi, graffiti, letteratura dei paesi coloniali ecc.: questi esempi ci hanno permesso, in tutto questo capitolo, di comprendere quali siano l’ampiezza e la diversità di questo settore che la “letteratura”, tradizionalmente, rifiuta di prendere in considerazione e che noi designiamo col termine di controletteratura.

Ci troviamo così di fronte a due spazi della parola e della scrittura, e in effetti pare che l’uno e l’altro debbano essere definiti in termini di opposizione.  …»

Insomma, è e fa ancora controletteratura, oggi, il “poliziesco” & dintorni?… E sta eternamente all’opposizione?… Per fortuna molta acqua è passata sotto i ponti – e il Terzo Millennio, almeno qui, ha sciolto vecchi nodi, dissolto antichi rancori, equivoci e malesseri, finanche stilistici…

L’abilità e il piglio di Righetti lo porta insomma a prendere la forma, più o meno spuria della detective story (apparentemente opposta alla soggettività del cosiddetto romanzo “psicologico”), e a contaminarla, sussumerla a perfezione: ibridandola peraltro con gran classe di ulteriori, aggiornatissimi umori intellettuali e lampeggianti estri simbolici, alla maniera dei grandi, ultimi maestri contemporanei che ne hanno sublimato, rinnovato la formula… In Europa, Dürrenmatt su tutti…

Ma questo piccolo libro ha veramente qualcosa di più, perché capace di riassumere in 15 serrati capitoli una quantità inesauribile di problemi, soluzioni, positure etiche, estetiche, di enigmi, arcani, intrecci archetipici… Forse la migliore “categoria” che potremmo trovargli, per assimilarlo tra struttura, contenuto e forma (ma soprattutto sguardo, filosofia del sentire, e accanito approccio epocale), è proprio quella molto francese, illuminista e diciamo pure volterriana, del conte philosophique, del racconto filosofico… Categoria del resto così cara anche a certi rari nostri scrittori: e subito pensiamo allo Sciascia migliore, sdegnato e impegnato civilmente, quello de Il contesto e di Todo modo, per intenderci… (Ma anche di certe affilate e implacabili parabole storiche, sorta di brevi romanzi antropologico-culturali, che vanno da La scomparsa di Majorana a I pugnalatori, a Il teatro della memoria etc.).

Del resto, la deriva epocale e il rischio ferace del futuro ha impregnato le opere di molti nostri narratori contemporanei: si pensi all’ultimo romanzo monstrum di Pasolini, quel macerato, incombusto Petrolio (postumo, 1992) che ancora resta un incompiuto enigma creativo di proporzioni indicibili… Per non parlare dei casi dell’accidioso alter-ego di Guido Morselli (Dissipatio H.G. sarà dato alle stampe, postumo, nel 1977), o viceversa dell’iracondo io narrante di un Paolo Volponi (Il pianeta irritabile esce nel ’78)…

Quanto alla deriva del Futuro, certo, essa sembrava sufficientemente imbrigliata, domata e affabulata, via via che il ’900 correva e scorreva, dal c.d. romanzo di anticipazione (la famosa “Science-fiction”): e ricordiamo se non altro i vari I. Asimov, R. Bradbury, A.C. Clarke e F. Hoyle, Ph. K. Dick e R. Zelazny, lo stesso K. Vonnegut, il polacco S. Lem… Ma resta sempre più arduo, per fortuna, marcare una sorta di confine tra fantascienza e letteratura “alta”… Pensiamo a taluni romanzi di T. Pynchon, G. Vidal, De Lillo…

Ma una deriva è tale proprio perché restia, fiera, inarginabile… Righetti è molto bravo a calarsi in un futuro prossimo (i 10 anni da qui al 2022!) che non ha bisogno di un nuovo Kubrick per trasformare in film cartaceo, per ora tutto scritto e implosivo, un baluginante racconto lucido e visionario al contempo; insomma per liberare nuove, struggenti immagini come sogno dilaniante e agguerrito, parossistico fino al tetro risveglio:

«…  Mi guarda con aria trasognata. “La dittatura della finanza è in corso da anni: da allora ho smesso di fare previsioni.”

“Sai bene che non mi riferivo alla tua Spagna. Sei così attaccato a questa tua creatura che godi nello sviare il discorso… Bene, allora te lo dico io. Stanotte gli specchi diffonderanno ancora nell’aria un lucore tenue, come enormi lucciole che illuminano appena il deserto. Domani il serpente di eliostati non si limiterà ad adorare il sole: inclinerà le sue spire per ribellarsi, riesci per caso a immaginarlo?”  …»

L’emergenza del Futuro? Ecco, ma il futuro in atto – questo è il punto cruciale – non sarà più una soluzione, semmai anzi persiste e vige come il problema stesso…

«…  Gli eliostati sono stati saldati alla roccia per resistere a eventi epici, per non dire tragici.”

“Il tragico, Fuente, è che questa è solo la fotografia iniziale. Il seguito sarà ancora peggiore. Non c’è più tempo…”  …»

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Ecco l’assunto nobile e saggio di tutto il libro. Romanzare la crisi, l’emergenza… è il compito – anche stilistico – che si è nobilmente assunto uno scrittore come Marco Righetti.

Le sue immagini tolgono il fiato, e rifondano l’immaginario efflorescente o infilzato d’incubi di un inopinato, metallico o vetroresinoso Giardino delle Delizie che mai nessun Hieronymus Bosch del Tremila avrebbe potuto architettare, dipingere, anzi nemmeno osare:

«…  Gli eliostati, migliaia, si avvinghiano intorno alla vertiginosa torre centrale. Sono specchi a inseguimento solare, perciò non sono immobili. I nuovi girasoli. A prova di tempeste di sabbia.  …»

Questo Futuro che aspettavamo, che aspettiamo sempre come un Godot ipotetico e forse un po’ fedifrago, maschera visionaria per eccellenza – ma che finalmente è giunto, ci sveglia, ci telefona di notte come un fratellone nei guai fra i nuovi girasoli… Un ingegnere che voleva usare, cambiare l’Africa e che l’Africa in fondo punisce, regredisce in arcano, velenosa bizzarrìa apotropaica… C’era una prosa strepitosa e sapiente, quasi una via di fuga iniziatica, da provvida liturgia laica, con cui Guido Ceronetti – nostra massima Cassandra gnostica, clinica e performance escatologica – già vari anni fa (1988), chiudeva l’aggirarsi profetico e turbato de L’occhiale malinconico: “Aspettando Qualcuno”…

«…  Quando ci prostra il senso di un intollerabile, di un intamponabile abbandono – nazioni alla deriva, patrie irriconoscibili sotto il calpestamento dell’uomo-massa, continenti oscurati dal crimine – e nessuno che guidi, che illumini, che abbia il comando della pietà, che legga e domini i segni, che ci rialzi la faccia – si trova requie nel pensare che Qualcuno, forse domani, o tra un anno, o tra dieci, nel punto e nell’ora della massima angoscia, potrebbe venire, sorgere, chiamarci, da una crepa di asfalto, da una metropolitana, rivelandosi fulmineamente…  …»

Il Qualcuno che è arrivato è forse il nostro stesso Io. Righetti ce ne mostra una scheggia, una sfaccettatura, un ganglio di destino, un volto che ha nome di romanzo, sotto un Sole nero – ma assomiglia all’esatto, banalissimo Io di tutti, alla medesima deriva che tutti noi viviamo, sopportiamo, ahinoi adempiamo…

«…  L’immagine degradata dell’uomo in cui ci specchiamo è una statua di cattedrale rotta dallo smog, che non è un composto di anidride solforosa e di aria stagnante ma un avvertimento morale. Ai depositi della forza non hanno accesso che lemuri, canaglie; la debolezza è in fuga perpetua, terrorizzata; e sono qua e là rose di sfinimento, candele su scogli, ginocchia flettute, chiavi vaganti, i morsi che segnano la polvere a testimoniare che c’è un’attesa muta.  …»

Perciò siamo grati a Righetti di averci intanto dedicato, profetato una parabola – una tra mille possibili, concrete, che parevano impossibili, impassibili!… Un’apocalissi imprevedibile ma avverata, e che brucia forse con lo stesso fuoco che ci annichilisce ormai il cuore, e rende tutto combusto, vendicato, punito, redento, immolato, il Linguaggio e il Pensiero, la Storia leviathana e le nostre storie meschine, piccine, imperdonabili…

«…  Ma ormai brucia tutto. Le fotografie a contatto con il calore si piegano, mutano consistenza, si staccano dalla parete, i bambini, le famiglie, i giochi sono tutti a terra per questo epilogo impensabile. Possibile che nessuno sia riuscito a prevederlo? Di chi la responsabilità? chiede sgomento uno dei protagonisti. Inizierà fra i sopravvissuti la solita conta, gli risponde il manager dal viso impassibile, tirata secondo il miglior cliché: usciranno le Cassandre che avevano previsto tutto, i pluripremiati best men si alterneranno a microfoni con potenza stellare, li poggeranno sul silenzio di questo ground zero, venendo in questo luogo calpesteranno la cenere dei loro cari. Ma intanto, prosegue lei immarcescibile, qui si sta scorporando tutto, i corpi dalle anime, le verità dalle menzogne, i fatti dalle ipotesi. Il nostro, adesso, sarà il fallimento peggiore.  …»

Il libro – questo bel libro – comincia dunque con la velocità (chi già fu cara, sic, idolatrata dai vecchi, vetusti futuristi primo-novecento!), e finisce con la distanza:

«…  Ci sono però adesso, disegnate sulla retina del giovane, altre immagini. Lui non perde nemmeno un fotone, neppure stavolta. Ne immagazzina più di quelli che si potrebbero raccontare.

È la distanza che lo sgomenta. La distanza da ciò che era, dalle sue radici. Non riconosce quello che accade perché non lo ha mai visto. Gli ultimi fotogrammi hanno spinto fuori la sua memoria e il calore che portava.  …»

La distanza – e forse la salvezza – di ben altre immagini; quelle da cui, con cui ricominciare, anche a fare romanzo, redenzione di affetti, riformattarci l’anima come un computer, ricaricare la mente come un portatile… Accorgerci che per fortuna il cielo è sempre lo stesso – soltanto il nostro sguardo adesso potrebbe rinascere, percepirlo e consacrarlo nuovo:

«…  La luce del giorno si è spostata in cielo, dove è appena iniziata la notte. Velature altissime, gonfie, solcano la volta. La cosa inquietante è il colore, verde chiaro. L’aurora boreale ha la forma di un sipario immenso steso fin qui, appena oltre il tropico del Cancro. Anche gli altri spettatori l’hanno notata, nessuno si muove. Compresi in quel verde ipnotico.  …»

Una grande ecatombe di Immagini, consente forse l’approdo della rinascita… Gli eliostati che bruciano come orologi molli o giraffe infuocate di Dalí, in un deserto post-surreale insieme placido e terrifico, maledetto e immoto, fecondano, concimano come sparse ceneri una moralità più degna:

«…  Immagini di una distruzione: gli eliostati si flettono lentamente in ginocchio, le cavallette si afflosciano con dignità, avvolte dal fumo.

Il sole non si vede più. Chiamate tutte le emergenze possibili!  …»

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Moralità, si diceva. Che sbatte un piccolo, post-musiliano Uomo Senza Qualità, Federico, al centro dell’emergenza ed egualmente attira, fagocita l’altro fratello Gian Mario come una splendida e gigantesca pianta carnivora, una coloratissima, feroce e soffice orchidea… che prima si apre, seduce, e poi si chiude:

«…  “Quando parti?”

Ma era caduta la linea e quella sera non c’era stato verso di riprenderla.

È andato nel Tamanrasset, il bacino sudorientale dell’Algeria. Si è allontanato dal popolo sterminato dei contatti, della rete professionale. Gian Mario sarà solo con se stesso, nell’unità di un discorso spesso senza risposte, sbriciolato.”  …»

Moralità, o, se vogliamo, ardue allegorie, collegate come corollari filosofici, sillogismi etici & derivati… Centoquindici pagine servono in fondo appena a prendere coscienza, a ritrovarsi uomini, creature vere dell’umano che ci appartiene, ci spetta e ci pertiene (Maritain ci ammoniva, ci catechizzava all’Umanesimo integrale già 80 anni fa!)…

… Non tollera l’ombra, ma la porta con sé…

Il lieto fine è questo – e non è affatto lieto ma almeno avvertito, allarmato d’intenti e d’attenzione. L’eterna favola dell’uomo che per salvarsi dal proprio stesso Futuro, e dalla scienza che nel frattempo Egli ha corrotto, deve ricominciare da capo, recuperare radici e origini, le zanne e zinne primigenie, gli inconsci preziosi archetipi junghiani, la fede primitiva e catartica, la carezza di una donna che amandoci ci fa ogni volta rinascere, ci perdona e ci reclama violenti, violenti di sola dolcezza…

«…  L’ombra è accecante quanto la luce, il contorno è confuso. Da una tenda esce una donna scura fino alla nascita del sorriso, fino ai giri di collane splendenti. le perle sulla fronte, che porta come un drappo, le cuciono una bellezza composta, riservata, la rendono preziosa. È pura, appena uscita dalla creazione. Ha i capelli impastati di ocra rossa. Porta un vassoio di legno con viveri, come un’offerta rituale. Sembra che la mia visita sia stata ampiamente prevista.  …»

Sono forse le pagine più belle, più coraggiose e rare. L’Africa che non sta negli atlanti, nei dépliants patinati degli alberghi turistici o altolocati, nemmeno nelle mappe anarchiche da escursionisti paramilitari… L’Africa delle tribù, dei graffiti paleolitici, degli urli originari, dell’osso che diventa clava, forse di un’altra Eva o un nuovo Adamo identico al primo… L’uomo e la sua Storia che non è formattabile, giustificabile, visualizzabile, salvabile né con un nome né con mille altri – o peggio esportabile in un’anteprima di stampa.

«…  Ciao Fhamil, adesso sono anch’io un fantasma, già non mi vedi più, sono rientrato nel deserto. Sul ciglio della strada una moula moula, come la chiamano i Tuareg in lingua tamahaq, saltella impazzita. Capo e coda bianchi e corpo nero, la passera messaggera di felicità. Mi vede e vola via. Non doveva segnalarmi alcuna felicità. Anzi.  …»

L’emozione è grande, perché trattenuta, distillata davvero come in un gioco alchemico… E visto che l’alchimia – i suoi miraggi, le sue crudeli o gemmanti fascinazioni ci hanno ormai chiamato – confortiamoci con l’iniziazione e l’inesauribile profezia che fu del grande Elémire Zolla, vero sciamano delle belle lettere, conoscitore di mille e uno segreti intrecciati in fabula… Cos’è realmente un Sole nero?:

«…  C’è in alchimia un sole occulto, nero, dietro il sole noto e aureo, e quel sole occulto è Saturno, il “sole lebbroso”, il piombo: questo ripetono incessantemente i testi alchemici.Del resto a Megara e a Efeso si adorava un Apollo d’ebano, a un Apollo luttuoso erano sacri i narcisi, i cimiteriali cipressi, i sorci pestilenziali.  …»

I sorci, i topi. Addormentati nelle città di sempre e sempre pronti a risvegliarsi per assegnarci un’altra ennesima Peste infausta e liberatoria, metaforica e concreta… Così Albert Camus finiva il suo celebre romanzo, nel ’47, subito dopo l’ultima guerra terribile, apocalisse esemplare.

Marco Righetti ha poetato in prosa tutto questo, e ne ha fatto cortoromanzo. Noi lo ringraziamo e lo salutiamo non con i Valéry, i Mandel’štam, o i Jacopo da Lentini che lui stesso ha evocato e citato, ma con una vecchia, eternamente fresca Illuminazione di Monsieur Rimbaud, il fanciullo dalle suole di vento, mercante d’armi e schiavi in Abissinia, ad Harar, complice di Menelik, il re dello Scioa… Rimbaud che i suoi eliostati lirici li commerciò, li costruì e poi se li bruciò sul serio, nel “rifiuto dell’Europa” e nel “disgusto dell’Europa”, vendicandoseli liberi e necessari, sulla carta e nel cuore:

«…  Ragazzo, certi cieli hanno affinato la mia ottica: tutti i caratteri sfumarono la mia fisionomia. I Fenomeni si commossero. – Ora, l’inflessione eterna dei momenti e l’infinito matematico mi cacciano per il mondo dove subisco tutti i successi civili, rispettato dall’infanzia strana e dagli immensi affetti. – Penso a una Guerra, di diritto o di forza, di logica del tutto imprevista.

È semplice come una frase musicale.  …»

Dopo la fine, l’umanità sul ciglio del nostro consueto baratro di Futuro, teso tra dramma e speranza, torna pura come appena uscita dalla creazione… dice Righetti. Forse, come appena reduce dalla Cacciata (il Masaccio dei progenitori)… Fra Eden e deserto rinasce almeno una scintilla di vita, una miccia di verde…

E il libro (film?) termina col personaggio di Flavio, giovane ambasciatore di giovinezza, in una Milano aziendale, fra computer e uffici, certo (il “Degreen Systems” pare un aggiornamento scenografico – e mentale – de La ragazza Carla di Elio Pagliarani… che è un “come eravamo” dei primi anni ’60)…

Come saremo è ancora fermo là, in un “cortoromanzo” del futuro in fieri, in progress, che comincia con la velocità e termina con la distanza… Non è dettaglio da poco, né un ossimoro casuale fra radici, fotoni, immagini e cieli interni… Fino all’ultima Peste ammonitrice, propedeutica, o ad una passera levissima, forse biblica messaggera di felicità.

Se la Velocità cresce eppure aumenta la Distanza, l’equazione non torna: e qui regna il malessere, qui il narratore perde l’Io nel Noi, si specchia ancora, pirandelliano in saecula saeculorum nei suoi fidi e stravolti personaggi, uomini e umanoidi, angeli e marziani, forse, in cerca d’autore… Scorporando tutto, i corpi dalle anime, le verità dalle menzogne… Per il suo sguardo bruciato d’assoluto come il flash al fosforo d’una vecchia macchina fotografica, che parte e giunge a inquadrarci solo l’anima.

(agosto/ottobre 2012)

Plinio Perilli 


Recensione pubblicata su:http://www.libertiamoci.bari.it/2012/12/a-proposit...