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Recensioni

 

Poesia Edita


A OCCHI CHIUSI
(in Retrobottega 2, AA.VV., CFR, Piateda Maggio 2012, a cura di Gianmario Lucini)

saggio di Plinio Perilli


L’ordo rerum del mondo,

e il sogno dolce/amaro della poesia

(sul poemetto “A occhi chiusi” di Marco Righetti)


   “L’occasione per offrire uno sguardo commosso e partecipe alle madri che affrontano disabilità dei figli”… E poi ancora: “un atto di solidarietà senza retorica”, per “restituire poesia a un privato urgente e sommesso”… Sono le nude e fin troppo intense espressioni d’intento con cui il Nostro presenta il suo scritto.

   Ed è già tutto in quest’ossimoro struggente (urgente e sommesso), il pregio di quest’ultima composizione di Marco Righetti, che usa oramai il “poemetto” – l’ingranaggio suadente della sua misura, la sua vicenda architettata e insieme cadenzata, diluita – a vero e proprio “romanzo” breve (e sua traccia, sua implosa epifania), lirico groviglio da dipanare, fiorito roseto da contemplare, attenti a non ferirsene (ma anche ben disposti a farlo!) per la pungente durezza delle sue spine...

   l’anestesia di una gioia contiene

   il barcollante mio dirti tesoro

   Urgente e sommesso è già il suo porsi in prima persona femminile, monologando drammi usuali e il destino speciale di una mamma alle prese con un figlio disabile – figlio della sua carne e del suo “sottosuolo emozionale”, del suo aggirarsi mai invano in un incubo o “in un sogno, un ordo rerum”… Quello, quelli insieme del Mondo e della Poesia.

   Già il titolo del resto, esplicito o forse inconscio richiamo al Tozzi romanziere acre e introiettato di “Con gli occhi chiusi”, richiama tutto un destino e un’aura del ’900, dissipati, oramai, eppure ancora nel cuore: del discorso, del linguaggio che è stile, dello sguardo ribaltato al didentro, estroverso in pectore…

   In 9 strofe cadenzate, fluenti a denso, emorragico “flusso di coscienza”, Marco architetta una trasparente e inesorabile cattedrale interiore tutta consacrata al “sottosuolo emozionale”, al “fuoco delle consolazioni”, all’”anestesia d’una gioia” – insomma al dramma non infrequente d’una nascita difficile, tarata, e poi soprattutto al rito esausto della scarsa ma cocciuta speranza residua…

   Almeno altre due volte, in anni recenti, quest’epifania del dolore, cioè questa Natività incrinata, esasperata di redenzione (etica, medica, morale, esistenziale), è fiorita nel sangue-petalo della poesia: penso alle liriche assolute di Umberto Piersanti per il figlio Jacopo, in Nel tempo che precede (Einaudi, 2002): “O figlio che non cresci / figlio per sempre”… E figlio per sempre è anche Alessio, altra ostica e adorabile creatura “autistica”, cui Giuseppe Fedeli ha dedicato l’anno scorso un altro memorabile libro, amorosissimo omaggio di padre, spurio e diaristico, potente di tenacia (Guarda nell’abisso, Pagine, 2010), dove la prosa si condensa sempre in poesia, e la poesia rirotola giù in prosa, negli inconsci crepacci di sogno ma anche orrida, trafelata ansia della vita.

   Marco Righetti, con tutta la laica pietas che si addice a un poeta vero, e soprattutto a un uomo, discepolo e adepto vero dell’Umano, irradia, rastrella insieme nuvole di sogno e zolle esistenziali, azzurro e pietre – in nome di quel luziano “duro filamento d’elegia” che solo può coniugare, esorcizzare in poesia questi drammi  sempre scorrevoli e irrisolti, purgatoriali e angelici, sommersi e poi salvati… “L’albero di dolore scuote i rami…” scriveva Mario Luzi in Onore del vero, “spedito tra l’eterna compresenza / del tutto nella vita nella morte”…

   Qui lo scenario, l’umbratile narratio è il racconto di questa nascita – dunque di questa gioia incrinata dai bollettini medici, dalle diagnosi a rischio… Ma è ancor più il lirico romanzo di un’odissea dello spirito, di un rito eroico e schiacciato proprio nella fede:

   avrò sempre necessità d’un’isola

   per leggerti con cura, che tu prenda

   le mie mani  mi conduca dove io

   non avrò nome e sarò penna o vela,

   tua l’ossatura del mare.   …

   Il figlio di questo fratturato, insidiato “passaggio d’aria”, nelle “smorfie / di un grido ossigenante” chiede ora non più alla madre ma forse all’intero mondo “latte incubante” per rigenerarsi, “l’inerpicarsi dello sguardo” risale a baratro di gioia “il visomiele” che “è ancora misto a sangue”…

*********

   Assodato il pregio dell’assunto lirico, la nobiltà del racconto, l’incandescenza spirituale che d’arcano lo rifonde in “quotidie”, grandemente ammiro in Marco la munifica, imprescindibile precisione del linguaggio – sempre piegato (piagato?), smussato, domato alla grazia emergente, alla necessità inderogabile del pianeta poesia… Un èmpito finanche astrale, ma mai astratto (e ricucito, suturato in continuum – come ferita profonda che rifiorisca – da un ricamo gnomico di enjambements):

   …

   Non sono più cadute quelle biglie

   lanciate nel futuro si saranno

   saldate a lai di stelle o forse nacque

   la convergenza per altre creazioni,

   vivo privata del cuore che m’ero

   forgiata per generarti un aiuto

   …

   Una religio insieme dei gesti e delle parole, dei pensieri e del lessico che almeno sa imbrigliarli, rinarrarli a preghiera sottaciuta, poi urlata in silenzio, arringata abbagliante, dentro il grigio il vuoto o i colori delle vite degli altri, nostre vostre loro, se ogni vero, angustiato Io, poi si assomma, si potenzia e redime in Noi…

   Contano poi i versi, la qualità del dettato, in quest’arringa al Cielo che parla dei dolori della Terra, dei travagli di una nuova anima cui il nuovo corpo non sembra rendere giustizia, collaborare in “espansione di progressi, / coriandoli d’ottobre nel lettino”…

   Versi che snocciolano, solfeggiano e ricompongono in laica laude quel duro filamento d’elegia che sempre la poesia anela a costruire, convertire armonico:

   … mi giravo in un sogno, un ordo rerum …

   … uscire da me: l’orbita è il tuo mattino …

   … prendo io la colpa amplifico il mio cuore …

   … ma la sentenza rimane una favola …

   … sei nella norma o qualche punto fuori … 

   … un mio cercarmi senza più memoria …

   … pena imperfetta puntura di pace …

   … vedi il mondo? si spezza all’orizzonte …

   Il bivio di una brulicante, perennemente incerta ma anche aperta coppia di opposti, discrasia mentale e lessicale, enigma insolubile, ritma e cadenza il dettato di una selva di reciproche ipotesi o forse sentimenti, emergenze, desideri bifronti: fuoco/freddo, “calore congelato”, “sei fuori, dentro questa corsa”… 

   Un linguaggio, attenzione, assolutamente moderno: “lo zapping mentale”, “è lunga un reality”, “nell’avvolgente lentezza di pale / eoliche”, “chiedo un mattino frisbee che mi torni / senza peso”, “l’hai scaricato per noi dalla rete / celeste”… Lessico e insieme scenografia metafisica (seppur dolente) di una Modernità che ancora va cercandosi, testandosi…      

                        … resto impreparata

   al capogiro piovuto da questa

   pancia-letargo sei millimetrato

   da parametri e monitor la nascita

   poteva insomma procedere come

   tempio davanti all’azzurro in programma.

*********

   C’è una prosa lirica poco nota eppure illuminante della cara Alda Merini, con cui quest’inquieta e sapiente poetessa carnale, vera compunta agiografa del desiderio, dà conto della pura impurità d’ogni Corpo, assolve comunque “Il dolore” come massimo ambasciatore del bene, evoca e canta il ponte che in trasparenza riconduce ogni Anima al suo unico cuore, piccolo-grande muscolo, fibra sfibrata che mai demorde a far vivere:

   «  Non è detto che l’uomo che soffre sia un vegetariano, uno che rinneghi i piaceri della carne. Soffrire vuol dire essere a conoscenza della propria natura e di quanto molto possa la materia sullo spirito a livello di sfiguramento. La materia è la vera devianza dell’uomo, la fame, la sete, il sonno, l’appetito sessuale: cose di per sé dinamiche che creano intorno allo spirito quei fuochi d’artificio che fanno dire all’uomo egli è bello in quanto uomo, cioè egli è bello in quanto ha molti accidenti spirituali. Ma la bellezza univoca del corpo è lo spirito che, se si allenta ogni correlato, va in necrosi anche se si mantiene straordinariamente in vita.  »

                (Alda Merini, Un’anima indocile, La Vita Felice, Milano, 1996)

   Ecco, collego liricamente  questa prosa inopinata sugli “accidenti spirituali” (e “la bellezza univoca del corpo”) ai versi disillusi e fulgidi del miglior Robert Frost (quello che in Conoscenza della notte, “Stringendosi alla terra”, recita: “Nessuna gioia adesso mi piaccia / Se non mischiata a dolore, / A sfinimento e ad errore: / Per questo io amo la traccia / Di lacrime, il marchio che resta / D’un quasi troppo amore, / Il dolce d’amara corteccia / E delle spezie il bruciore”…). E torno al mio caro Marco allietato che tanto ostico e condiviso rito dolente mai perda di vista, anche in ossequi alla natura matrigna, alla natura difettosa, l’ostinata certezza o abbaglio della speranza, delle speranze testate…

   …

   allo specchio ti guardi duplicato,

   la sconfitta ti fa esplodere sogni

   mi sorridi nel vecchio trucco, farmi

   schiava. M’avverto che io farò la madre

   tu il figlio anche se scivolo diretta

   nell’atopia e ricerco la tua anima

   accolito o aquilone e con speranze

   testate sostituisco la natura

   difettosa   …

   Dolore e Speranza, speranza d’ogni e in ogni dolore…

   La materia è la vera devianza dell’uomo…

   Sembra essere un tema assolutamente spirituale, eminentemente teologico – e invece ora ci piace rintracciarlo proprio nel gran cuore dolente, nella sublime penna incrinata dell’assiso Leopardi (stiamo sfogliando il suo cauterizzato, vaccinato Zibaldone di pensieri), Nume e in fondo anche Medico della Poesia…

   “…  Anche il dolore degli uomini si consola o si scema col persuadersi che il danno, la sventura ec. o non sia tale, o sia minore ch’ella non è, o ch’ella non apparisce.  …”

   “…  La speranza non abbandona mai l’uomo in quanto alla natura. Bensì in quanto alla ragione.  …”

   Mai questa fervida, compartecipe poesia di Marco Righetti, abbandona la Speranza di poter col tempo, e con l’espansione di progressi, vincere o comunque attutire il carico e l’impatto del Dolore…

   Circolarmente, essa finisce così come poteva, potrebbe cominciare – rinascendo all’unisono, ripetendo l’inciso e il dono lirico della sua luce, musica e ritornello dei “trilli a senso variabile”, insomma dei vagiti di questa speranza che ancora non ha i denti, ma morde l’aria e i nostri cuori, “per la fame” di vita e di poesia.

                                    … non posso

   inghiottire e basta, non mi feriva

   il tuo vetro cisterna di dolcezza:

   se ora m’affaccio in noi c’è ancora il vento

   che ti strappava voli e mi lasciò

   entrare a occhi chiusi come madre.

                                                                   Plinio Perilli

NOTA INTRODUTTIVA APPOSTA DALL’AUTORE:

Questo poemetto è l’occasione per offrire uno sguardo commosso e partecipe alle madri che affrontano disabilità dei figli, è un atto di solidarietà senza retorica, un tentativo di restituire poesia a un privato urgente e sommerso.

A occhi chiusi

I

Avevo posto un’illusione a guardia:

che mi scorrano solo melodie

fra le gambe, ma in mezzo è semprevivo

il flusso delle notti emorragia,

c’è che lo zapping mentale finisce

su ricordi a calore congelato,

cerco ancora il vestito per non essere

nuda di fronte all’assalto di vite

che mi sono mancate e vedo addosso

ad altre, il sottosuolo emozionale

è treno lanciato i venti che impazzano

mi muovo a piedi pari per cadere

su ballate, memorie senza stop.

Nubile d’esperienza, in copertina

immaginavo le varie maestà

di tutine (piscina per stupore)

il tulle di carrozzine, mi vedevo

già col numero d’una gentilezza

e il bagno solito nei complimenti

è il primo figlio e porta in giro il bene

di questi nove mesi ha rovistato

tutta la gioia pronta e me l’ha data

mi giravo in un sogno, un ordo rerum

II

ma era solo una bolla. Importa il fuoco

delle consolazioni che qualcuno

m’inoculò per abituarmi al freddo

prossimo al comparirmi tuo sincero

sul petto il lampo della targa chiara

la voce estratta dalle biblioteche

del noto azzarda una patologia

palloncino costantemente a rischio

può scoppiare o sgonfiarsi per un nulla

l’anestesia d’una gioia contiene

il barcollante mio dirti tesoro

avrò sempre necessità d’un’isola

per leggerti con cura, che tu prenda

le mie mani e mi conduca dove io

non avrò nome e sarò penna o vela,

tua l’ossatura del mare. Dovrò

uscire da me: l’orbita è il tuo mattino.

III

Sei fuori, dentro questa corsa, subito

t’ha afferrato il passaggio d’aria, smorfie

di un grido ossigenante per fortuna

evitata cianosi le narici

pervie vita ti salta, gatta, in petto

il visomiele è ancora misto a sangue

tu come piccola passione viva

da lavarsi veloce sotto luce,

latte incubante per rigenerarti,

ma poi l’inerpicarsi dello sguardo

coglie una zolla mancante al tuo prato,

il dialogo cocente tra il primario

e tuo padre mi crede se le dico

che l’attenta scopia degli strumenti

si confonde di fronte al non-finito?

Noi studieremo cos’è questa notte

non può ghermirvi siete in una casa

protetta da ogni male stia tranquillo

a sua moglie diremo tutto piano

ci sarà l’espansione di progressi,

coriandoli d’ottobre nel lettino.

IV

Non tema è piatto fisso d’esperienza

che taluni non abbiano ultimato

lo sviluppo dovuto lei signora

s’infili maschere ridenti sia

figura mossa fase di speranza

così m’aggrappo al tuo sonno nell’alba

la succhio anche per te la tiro giù

prendo io la colpa amplifico il mio cuore

sonar di donna istoriata da corsi

preparto predicavano chi ama

cattura al volo i mali dell’amato

ma la sentenza rimane una favola

della realtà non è incisa nei fatti

che m’attaccano, resto impreparata

al capogiro piovuto da questa

pancia-letargo sei millimetrato

da parametri e monitor la nascita

poteva insomma procedere come

tempio davanti all’azzurro in programma.

V

Per il momento nulla non hai denti

per la fame ma solo trilli a senso

variabile ci penso io al contorno

stappo sorrisi dall’ammasso, al gong

dirigi l’aria con mane sbaffate

da capricci, strisciando trovi sbarre

di no opposti da sensi materni

nonostante il problema tuo mi sgrano,

rosario in chiaro, forse non dovrei

contraddire la luna che ti guida

il volto ai maghi, m’esporto nel tempo

del dopo quando sarai ciò che avremo

potuto e l’esito fulminerà:

sei nella norma o qualche punto fuori.

Lavo le ore soffio il tuo respiro

nell’avvolgente lentezza di pale

eoliche, ruotano un sole prudente

e ne rimandano l’eco la volta

chiedo un mattino frisbee che mi torni

senza peso, i termometri m’appuntano

un mio cercarmi senza più memoria.

VI

Ansie che colano sulla tua maglia

insieme al pomo rosso del tramonto,

l’hai scaricato per noi dalla rete

celeste, si dilatano le spiagge

di fantasie il tovagliolo è impiastrato,

l’esecuzione forzata del pasto

è lunga un reality, accorto ti muti

anfibio, ambiguo, erba formicolante,

allo specchio ti guardi duplicato,

la sconfitta ti fa esplodere sogni

mi sorridi nel vecchio trucco, farmi

schiava. M’avverto che io farò la madre

tu il figlio anche se scivolo diretta

nell’atopia e ricerco la tua anima

accolito o aquilone e con speranze

testate sostituisco la natura

difettosa signora l’arabesco

già supera l’insulto ramperà

l’edera d’una guarigione tocchi

pure rimarrà in piedi la parata

di progetti il futuro con abbaglio

il figlio presto ventenne l’amore

la scienza di studiare e poi il lavoro,

abbia fiducia, perché in un’alzata

di vento investiranno lei beati

questi anni spesi, ne sia certa, calda,

molte domande le premono gli occhi

ma nessuna finisce a terra rotta.

VII

Le orme nuotano sempre scollate

dal corpo cui appartennero non sporcano

le foto dei tuoi passi ma poi scopro

quell’accodarsi di piogge vissute,

camminammo per mano tesi quanto

poté un inverno appesi a un apparecchio

d’aria, parole, verso le regioni

dove avvenne un miglioramento, lessi

la guida a un ottimismo, me risorta

nel pieno del tuo giro noi in cerca

di fioriture per poggiare umori

altalenanti il mio pianeta vortice

d’affetto nascosta spargevo neve

riconoscevo subito le tracce

del tuo passaggio, puro più sul mio

foglio intatto, ogni impronta era racconto

che io sola comprendevo e cancellavo

il mio perimetro erano le tue

costellazioni quella posa in opera

di desideri sospesi cullavo

il tuo nome di grano, io improvviso

collo di bottiglia ne vidi uscire

soltanto gocce bianche il rosso chiuso

sul fondo non ci doveva macchiare.

Erano giorni a biglietto di sola

andata da me a te intorno il coro:

pena imperfetta puntura di pace.

VIII

Vacanza ti spingevo sugli scanni

di giochi t’allestivo guardaroba

d’amici preparavo frangiflutti

sabbia di lidi e sirene, bruciavo

il buio, il sacerdozio del timore

svaniva, respingevo fuori pista

luoghi comuni tipo l’inflazione

del bene è un male crescerà viziato,

ma poi restavo anonima davanti

ai tuoi primi chili di libertà

quando da fine utopista versavi

mare in una conchiglia (c’era un regno

e sant’Agostino in quella tenacia)

là unghie d’aliscafi uno stormire

di scie qui la tua pelle interruttore

d’euforia, ti seguivo avanti e dietro

ero il pendolo dove misuravi

esperimenti e rinunce, il traguardo:

vedi il mondo? si spezza all’orizzonte

ma noi restiamo in tramezzi-preludi

d’altre stanze dove l’azzardo è credere,

calici che si toccano in un taglio

d’occhi nell’alito portante osmosi

le abitudini le uscite per luci,

che qualcuno ci metta in bella copia.

IX

Se ne andò ormai decenni fa la brezza

di narratori che ti conducevano

d’olio al recupero ho nostalgia noi

allora, il tempo ci stava sul ventre

non perdevamo nulla, ma qualcosa

è più rapido e non ha mai ritorno:

i silenzi si staccano dal volto

e se ne vanno, così sei cresciuto.

Non sono più cadute quelle biglie

lanciate nel futuro si saranno

saldate a lai di stelle o forse nacque

la convergenza per altre creazioni,

vivo privata del cuore che m’ero

forgiata per generarti un aiuto

ma non smarrisco canzoni spaccate,

se la vita ti aspetta con puntate

che non rinuncio a credere marito

magari padre vincente speriamo

l’ambo di figli alla moda non posso

inghiottire e basta, non mi feriva

il tuo vetro cisterna di dolcezza:

se ora m’affaccio in noi c’è ancora il vento

che ti strappava voli e mi lasciò

entrare a occhi chiusi come madre.

Marco Righetti



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