Scrivo romanzi, racconti, poesie,
atti per il teatro

 

Prefazione

 

Poesia Edita


In questo breve corso senza fine
Recensione a cura di Mauro Ferrari


Bell’ossimoro, il titolo del nuovo libro di Marco Righetti, poeta pluripremiato in molti dei maggiori concorsi. In questo breve corso senza fine, raccolta che non si esita a definire lirica, senza alcuna remora, ciò che campeggia sempre in primo piano è la Vita, la vita umana e la Vita con la maiuscola, il bios di cui facciamo parte e che, sappiamo dalla biologia e dalla poesia, è «la forza che nel fusto verde spinge il fiore [e] guida la [nostra] verde età» (dice Dylan Thomas) – il DNA insomma, che si replica attraverso le generazioni e non conosce la morte. Come naturale controparte della vita, questo è un libro che parla di morte, morte di una persona cara a cui si è allacciati per sempre, sia affettivamente che, come detto prima, biologicamente, nel passare da una generazione all’altra (e difatti il testimone, nel testo di p. 67, passa al figlio). Il tempo «non è mai nostro / perché ci traversa le vene» (p. 32) e «l’inverno usa la nostra pelle» (p. 35) e «ora il cammino è gioco di dadi» (p. 63). D’altronde, tutta la fisica dal Novecento in poi è una riflessione sul tempo…

Ma quella di Righetti è soprattutto poesia di pudore, un pudore che affiora nel pianissimo di buona parte dei versi (persino quando si inarcano e si alzano di tono) e nella discrezione nel toccare temi salienti, emotivamente carichi di risonanze in tutti noi. Del resto, già quasi in incipit il poeta ci parla dell’inafferrabilità della vita: un palloncino che sale in alto (p. 12), un passato che si fa randagio e non ha più nome (13), un novembre disperso (15); sia che parli dell’illusione di conoscere se stessi che di congenita inadeguatezza di fronte al mondo (p. 16).

Stagioni, la prima sezione, situa la vicenda umana nel divenire del tempo, così come la seconda sezione, Geografie, la quale non abbandona il tema del tempo, ma vi sovrappone più precisi sfondi geografici quindi relativi alla nostra vita concreta, al nostro abitare, contro i quali «rubiamo frammenti al tempo» (p. 37).

Sarebbe facile elencare tantissimi loci a tema, tutti incentrati su un punto: la Vita non ci appartiene, piuttosto «preme[-] per entrare» in noi »(p. 47). Il che appare a volte poco in sintonia con il pensiero occidentale dominante, che fa dell’uomo il dominatore (e il nominatore) del mondo, mentre mi sembra in singolare consonanza con certo pensiero “primitivo”, ad esempio quello dei pellerossa o degli aborigeni; pensiamo a versi come «Questa vita che sembra nostra» (p. 58). E questo potrebbe essere un concetto a cui avvicinarci in fretta per non devastare ulteriormente noi stessi e il pianeta… Per fortuna, questa interpretazione della vita umana è anche in sintonia con buona parte del pensiero più criticamente avanzato, il quale suggerisce la stessa cautela, lo stesso atteggiamento rispettoso che emerge da ogni verso di Righetti.

Quello che possiamo fare, come la ragazza disabile che ci rappresenta tutti, è «togliere il buio / smuovere un po’ d’acqua nel mare» (p. 20, dove il mare è il paradigma dell’Essere). E coltivare la pietas nei confronti dei congiunti (si veda l’altissima e liricamente purissima terza sezione eponima), dell’umanità (e qui rimando al Trittico: sui muri di Lampedusa) e del mondo tutto.


Mauro Ferrari