INTERVISTE

RELAZIONI - Le interviste di LimpidaMente


 Francesco Alberoni - Alcune domande a MARCO RIGHETTI


Domanda: Come è nata l'idea di scrivere il romanzo "La vita è molto più"?

Risposta: «La scrittura può nascere anche come metodica per un’interpretazione di quello che avviene: è nell’osservazione di chi mi è vicino la migliore via per comprendermi, ognuno di noi ha bisogno dell’altro per capire se stesso. Mi ha sempre colpito il concetto di relazionalità in Lévinas - in particolare l’analisi del "volto" altrui - nel suo "Totalità e infinito: saggio sull’esteriorità". Il mio libro è un modo per "intus legere" problemi enormi, per fermare davanti a me, sullo spazio bianco della pagina, ansie, fughe, disperazioni, drammi. E mi è uscito di penna uno sguardo assiduo, talvolta commosso sul dolore ignoto. Il piacevole imprevisto è stato scoprire che la speranza è lì a coniugarsi con la parola vita anche dove nulla sembra favorirla. Questo libro è anche una lettura del rapporto fra luce e ombra, ove la seconda può svelare orizzonti insospettati; ma è anche una radicale parabola della disillusione, del nulla a cui sono attaccate le nostre giornate, così esposte a variabili e imprevisti, tali per cui un secondo può davvero cambiare il corso di un’esistenza. Scrivere significa non essere mai fermi a se stessi, la scrittura mi ha permesso questo ponte verso il grido e la luce di certe atmosfere, le ossessioni e le poesie nascoste nelle pieghe del quotidiano. Alla fine del cammino mi faccio le stesse domande di prima, ma le sorregge una segreta forza, che è poi la stessa che nel romanzo contagia i personaggi, a cominciare dal protagonista assoluto, Francesco».

Quali tematiche ha voluto affrontare in questo romanzo?

«Direi che con la telecamera sono entrato nella dimensione sconosciuta, nel dramma di una famiglia sconvolta dal problema dell’autismo. L’obiettivo indaga e porta in luce, evidenzia o smorza, coglie particolari che altrimenti sfuggirebbero. Di qui certe pagine dedicate proprio all’osservazione dei movimenti profondi che agitano i protagonisti. Credo sempre attuale il monito di Proust: occorre disfare l’abitudine a vedere la realtà come ci piace vederla. Ma chi può dire qualcosa su qualcun altro? A voler radicalizzare dovremmo dire nessuno. Gorgia sosteneva l’impossibilità che il linguaggio attingesse alla realtà, avendo invece la funzione di dominare l’ascoltatore. Anche oggi la parola serve a persuadere: cosa cerca il lettore in un libro? L’essere persuaso dalle vicende raccontate (né vere né false), trovarvi emozione. E resta anche innegabile che "l’inaccessibile è già qui, dietro le parole" (Ben Jelloun). Ma occorre qualcos’altro: c’è bisogno di quel particolare legame fra testo e realtà che sperimenta chi scrive, ed è un legame soggetto a progresso e perdita, come ogni vicenda umana. Mi sono prima innamorato del soggetto, di quello che mi premeva mente e cuore, e attraverso questo rapporto delicato, prudente, sorvegliato ho potuto dire qualcosa, azzardando ipotesi e conclusioni balenanti, ma pur sempre nell’universo narrativo. E qui mi sono fermato: è stato in quel momento che ho deciso il titolo, "La vita è molto più". Ho messo questo titolo, ho voluto lasciare alle parole la libertà di costruire i significati, i rimandi, le possibilità. Ogni libro vive dello spazio nuovo che crea nel lettore perché questi lo riempia».

Cosa ha voluto evidenziare, in particolare?

«Nel romanzo è proprio Francesco a essere nello stesso tempo fonte del dramma e imprescindibile riferimento per un qualunque nuovo inizio: "Il cerchio non si spezza, perché c’è Francesco. È lui che sta tenendo insieme il cerchio. Lo ricuce in continuazione col suo solo esistere". La vita di ogni giorno, in fondo, è solo la lunga sequenza di un film in cui ci troviamo ad interpretare un ruolo in diretta e senza alcuna preparazione (Szymborska affermava: "Una vita all’istante. Spettacolo senza prove. Non conosco la parte che recito. So solo che è la mia, non mutabile"). Ma se si fa attenzione ci sono sempre, in sovrimpressione, delle didascalie che permettono di notare particolari che altrimenti sfuggirebbero. La lente della scrittura serve a questo, a non dimenticare mai che siamo qui per vivere, che stiamo attraversando il periodo più bello della nostra coscienza, la vita appunto, perché il prima e il dopo coscienza ci restano sempre misteriosi. È insomma la coscienza a stanare la vita e le sue contraddizioni. È quello che accade nel libro: nonostante tutto, l’autismo di Francesco è un grimaldello per entrare là dove imperano luoghi comuni e per denunciare che il vero autismo è quello della società cosiddetta civile, con le sue ipocrisie, indifferenze, false sicurezze, la stessa famiglia di Francesco vede crollare certezze. Il lettore noterà come si passi gradatamente da una dimensione ordinaria a qualcosa di sconvolgente. Sentore di questo è già nel capitolo iniziale, decisamente forte. Roma, d’altro canto, svolge un ruolo propulsivo della vicenda, con i suoi esterni e le sue memorie. Il sonno di pontefici e imperatori intriga gli avvenimenti, gli dà sfondo e consistenza storica, talora drammatica, come nella lunga descrizione dell’incidente, episodio che apre la narrazione e ricompare poi prima del finale. L’amore nel senso più lato del termine cuce gli interpreti l’un l’altro, e talvolta è vero e proprio eros».

È stato detto che si tratta di un romanzo introspettivo. È d'accordo con questa definizione?

«In parte, perché lo inquadra in un genere preciso. Parlerei piuttosto di un romanzo che guarda dentro e fuori contemporaneamente, non a caso ho legato al plot accenni alla grande Storia, dagli anni di piombo all’omicidio di Bachelet, alla strage di Nassirya. E analogamente ho cambiato spesso esterni, spaziando dal fato che incombe su certe atmosfere romane, cariche di secoli, di fasti e di mistero, dalla vita segreta che si muove oltre le quinte del Circo Massimo a paesaggi affatto diversi, dove in realtà il mutato fondale diventa movimento, peripezia della vita stessa, fascino di una storia. Si inserisce qui il capitolo del ritorno di Jacopo al suo paese di origine, Cortona, e quello che accade davanti al televisore nella sua casa natale, ora abitata da altri… Corre anche fra le righe una storia dello stupore, ininterrotta, piana, una sorta di basso continuo che mi permetto di offrire al lettore. Aveva ragioni da vendere Sklovskij quando diceva che l’arte dovrebbe sottrarre l’oggetto all’automatismo della percezione. Io direi che noi percepiamo l’ordinario indistintamente, senza alcun accento, pausa o cesura. Ho scritto per guarirmi, per riscoprire il silenzio, la bellezza, ciò che resta, e come nel cuore stesso del dramma possa attecchire un percorso nuovo».

Cosa ha provato nel trattare un tema delicato come quello dell'autismo?

«È avvenuta un’attrazione, il soggetto mi ha avvicinato progressivamente, innescando in me curiosità e premura, attivando insomma il più naturale meccanismo della conoscenza. Mi è occorso un episodio significativo due mesi dopo l’uscita del libro. Arrivo nei locali dove ha sede "Il filo dalla torre", un’associazione romana che si occupa - e al meglio - di assistenza ai ragazzi con questo problema. Non ci ero mai stato, non ero mai entrato in una struttura che ospita bambini autistici. C’è uno di loro che mi osserva, si muove e si comporta esattamente come descritto in certe inquadrature del romanzo: di qui una mia sorta di familiarità con la situazione, la stessa che si prova nel déjà vu. Ma il fatto è che prima di entrare mi aspettavo che sarebbe andata così».

Per scrivere questa storia ha preso lo spunto da fatti reali?

«In memoria non abbiamo solo episodi vissuti nel senso tradizionale del termine, ma anche reminiscenze, intuizioni, presagi, fatti che accadono nella mente. Ho incontrato nella mia vita ragazzi autistici, ma soprattutto ho trascorso mesi della mia infanzia e giovinezza con mia cugina, affetta da gravi difficoltà: nacquero allora, in quelle lente giornate estive al suo fianco, le prime pagine del romanzo. Fu lì che lessi la forza dell’amore, immagini di speranza».

Pensa che nella nostra società vi sia una sufficiente attenzione verso i problemi simili a quelli del piccolo Francesco?

«Purtroppo ciò che è percentualmente marginale è spesso ignorato. Vi è attenzione solamente fra portatori dello stesso dramma, fra famiglie di bambini autistici, naturalmente, ma a parte alcune fortunate pellicole cinematografiche non si va oltre un interesse momentaneo o, al massimo, la lettura di un libro come quelli scritti da Fulvio Ervas o da Gianluca Nicoletti o, alcuni anni fa, da Giuseppe Pontiggia ("Nati due volte")».

Cosa dovrebbe fare la società per limitare questo tipo di disagi?

«Prendere coscienza che c’è, come accennavo, un autismo sociale che è altrettanto pericoloso: l’indifferenza crea isolamento, incomprensione, crisi dei ruoli, "inidentità" come diceva Montale. E poi non esiste l’autismo ma gli autismi, patologia ancora in gran parte misteriosa nella sua insorgenza come nella sua stessa natura. La società vuole sicurezze, indici matematici, letture certe e rapide degli eventi: la scoperta che l’autismo è molto più frequente oggi di venti anni fa è qualcosa che va in senso contrario, che annulla quei percorsi economico-finanziari che dovrebbero indicarci quale sarà il nostro futuro, e quindi è qualcosa di pericoloso, di terribile, quando invece dalla crisi si esce solo con la riscoperta del valore dell’individuo, non soggetto a fluttuazioni. La società dovrebbe misurare la propria salute non solo con l’indice FTSE MIB e il Pil, ma con quanto fa per i soggetti più deboli, e sotto questo aspetto siamo nel caos, sono moltissime le famiglie strozzate dai costi per curare figli autistici, ci sono in Youtube video di mamme disperate. Quelle denunce vengono da un mondo parallelo, senza punti di contatto col nostro, da un’Italia alluvionata dalla mancanza di aiuti».

E come dovrebbero comportarsi i genitori?

«Fanno già il massimo, fanno troppo, rischiano la paralisi di ogni "funzione di speranza". Sì, perché nella giornata ci sono le funzioni di speranza, cioè quegli stimoli, situazioni, atti di coraggio che servono a rimettere in corsa la vita stessa. La lettura di "Una notte ho sognato che parlavi" (di Gianluca Nicoletti) è raccomandata per capire come un padre vive l’autismo del figlio, come questo suo disturbo lo renda padre disincarnato da ogni più remota dolcezza della vita, segnato da un dramma diverso da ogni altro. Il 2 aprile si è celebrata la giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo, ma siamo ancora lontani da una vera attenzione al problema. Esiste nel Lazio un Osservatorio Epidemiologico dell’Autismo. Quest’anno l’"Associazione nazionale genitori soggetti autistici" (Angsa) ha presentato alla commissione Sanità del Senato una proposta di legge “Per una normativa adeguata ai bisogni delle persone con disturbi dello spettro autistico”: quello che serve è una legge nazionale sui diritti delle persone affette da questa patologia».

Se dovesse definire il suo romanzo con un aggettivo, quale userebbe?

«Coinvolgente. Perché è un’avventura della vita e dello spirito ma chi legge lo comprende dopo, c’è sempre l’anticipo degli eventi sul lettore, che è in continuo ritardo su quello che accade. Solo Francesco, nonostante l’autismo o forse in conseguenza di questo, è l’unico a comprendere quello che avviene, e qui c’è la rivelazione di una sua dote sconcertante, l’empatia, che supera le percezioni ordinarie e illumina di sé chi gli sta accanto. È proprio per questa natura inattingibile del figlio che nel finale Jacopo, il padre, gli dice: "Forse un giorno crederò in Dio, per il momento sei tu l’altare"».

Cosa si aspetta dalla pubblicazione di questo libro?

«Scrivere può solo lambire la vita della gente. Non si scrive per cambiare il mondo. L’utilità di un libro potrebbe essere quella di non cadere nel vuoto, di entrare nelle pupille del lettore come un’immagine meno corriva delle altre. Del resto le pupille sono dei fori, delle ferite profonde che portiamo tutti, dalla nascita».

Come proseguirà la sua attività di scrittore?

«Sono in attesa di pubblicare una silloge di racconti, sto rivedendo un thriller e preparando un altro romanzo».


Intervista pubblicata su:
http://www.limpidamente.it/relazioni.intervista.righetti.htm#.VFvePMnp8h4