INTERVISTE


Agenzia Letteraria Paradigmi 
Intervistiamo lo scrittore Marco Righetti.

Quando e perché hai iniziato a scrivere?

È stata una congiura. Si sono coalizzati più elementi, emozioni mai del tutto immagazzinate e restate in zona intermedia fra memoria e il futuro. Ogni fatto esterno (emotivo o razionale che sia) ha bisogno di un tempo nostro che lo accetti, lo comprenda, lo trasporti nella memoria. Ma questo non avviene sempre, vi sono fenomeni che si sottraggono alla nostra meditazione e restano in zona d’attesa, sospesi appunto fra la memoria e il futuro, come una nostra indefinita possibilità di essere: la scrittura attiene secondo me proprio a questo ambito, a una nostra migliore, più completa, più consapevole possibilità di essere. Quando questi fenomeni hanno raggiunto un peso considerevole ho ceduto: avevo quarant’anni, ricordo che mi trovavo in un ospedale romano, un luogo forse impoetico, ma fecondo da un punto di vista narrativo (basti pensare al Der Zauberberg di Mann). Tornato a casa pienamente ristabilito capii che dovevo dar seguito a quello che mi stava accadendo dentro, alle urgenze che sentivo: non poteva finire tutto così, con una semplice e pur lieta guarigione. Nella geologia del logos personale, ciascuno ha il suo logos (la propria parola consustanziale al proprio essere) iniziavo a cogliere strati sempre meno visibili, così profondi da reggere l’intera impalcatura dell’essere: scrivere è un tentativo di portarli in luce.

Vuoi parlarci di Sole nero, il romanzo che uscirà in tutte le edicole il 21 agosto, con Leone editore e in libreria a settembre?

L’obiettivo finale, non dichiarato (come in ogni vera strategia) è una scommessa col lettore, riuscire a sorprenderne i meccanismi logici, e quindi – come ogni libro – diventa inconsciamente una riflessione sulla stessa scrittura. L’appartenenza a un genere, quello noir, è solo convenzionale. Credo sia più giusto non definirlo, almeno a me riesce difficile. È come tentare di dare una sintesi di un figlio. Come può essere un figlio? Il genitore è l’ultimo a poterne parlare, è troppo coinvolto.

Come ti è venuto in mente il titolo del tuo libro?

Quando l’ho pensato ho subito considerato che c’è un testo teatrale di Rocco Familiari, Il sole nero, uscito nel 2007 e ispirato a un episodio della cronaca siciliana, che però va in tutt’altra direzione rispetto al mio romanzo, quindi non ho avuto paura di proporre questo titolo. Mi è venuto in mente semplicemente alla fine del romanzo, quando ho pensato retrospettivamente l’intera vicenda. Il titolo è come la facciata di una chiesa, solitamente è l’ultima cosa a dover essere definita. Sole nero è anche una riuscitissima canzone della storica band dei Liftiba, del 2010. Sempre in tema c’è poi il romanzo SOLAR di Ian McEwan, che parte dal discorso sulla luce solare e sulle energie pulite per trasformarsi (e subito) in una garbatissima e impietosa riflessione sui luoghi comuni dell’industria culturale.

Tu sei un poeta già affermato che esordisce nella narrativa lunga, come mai questa transizione? Hai sempre scritto anche di narrativa? Come vivi il rapporto fra narrativa e poesia?

Ho iniziato a scrivere racconti solo da alcuni anni, anche in tal caso è stata un’urgenza. Non ce la facevo più a tenermeli dentro: erano storie, fantasmi, desideri, invenzioni, era un’altra vita che premeva. Il codice è però molto diverso da quello poetico, per quanto chi nasce poeta tradirà sempre le sue origini anche nella narrativa. Diciamo che è un rapporto di netta separazione: in poesia vi è un’attitudine evocativa, una descrizione che si completa sulla bocca del lettore, uno spessore della parola che precipita di verso in verso fino a ‘ferire’, sollecitare chi legge. La poesia sotto tale aspetto ha un forte radicamento nella struttura fondamentale del suono, del ritmo, nei meccanismi di associazione delle idee, nella riorganizzazione talvolta violenta del reale. Nulla di simile nella narrativa noir, o meglio il focus è su altri meccanismi, che si misurano su un tempo più lungo. E la partecipazione del lettore è sicuramente maggiore che in poesia.

Come rendi i tuoi personaggi credibili?

Facendoli restare senza scrittura per qualche giorno: sono uno che perennemente abbandona i propri personaggi, proprio per vedere come se la cavano da soli. Diciamo che se a una rilettura i dialoghi e il testo reggono ancora vuol dire che gli attori non erano troppo legati alla mia penna e quindi dovrebbero poter vivere da soli. In effetti più che credibili a me preme che siano coerenti col loro mondo (il che non esclude affatto che vi sia un’evoluzione del personaggio). Capita naturalmente che sia il personaggio a conquistarmi, e allora è lì, paradossalmente, il vero rischio: che mi prenda troppo la mano, che voglia spingermi oltre il romanzo. In tali casi devo estraniarmi dalla mia qualità di autore ed entrare in quella del lettore, credo sia questo lo sforzo maggiore per chi scrive, dimenticarsi, entrare nella testa del proprio lettore ideale.Il romanziere e poeta Marco Righetti

Che cosa ti ha ispirato nella stesura del tuo manoscritto?

Una serie di eventi legati alla congiuntura mondiale, non tanto economica ma soprattutto energetica e climatica, vorrei dire ‘atmosferica’. Nessuno di noi può evitare di fare i conti con l’aria, perché è la nostra radice più malata, fra le quattro radici empedoclee (aria, acqua, terra, fuoco). Superata l’aristofanea città di Nubicuculia, a metà strada fra terra e cielo con gli dei ridotti alla fame dagli uccelli, superate le Nuvole (sempre per restare in compagnia di Aristofane), divinità impalpabili e ingannevoli, superata anche la calviniana ‘città invisibile’ di Andria, perfettamente corrispondente al cielo… resta il Sole con i suoi problemi al ciclo… delle macchie solari. Vi è copiosa letteratura sul tema delle energie alternative alle tradizionali, mentre non è parallelamente cresciuta la relativa cultura di un’efficienza energetica. Leonardo Maugeri ha scritto meno di un anno fa un testo fondamentale in merito: “Con tutta l’energia possibile”: la soluzione all’emergenza energetica verrà anche dal sole. Salvo, aggiungo io, non si incappi in una concatenazione di eventi come quella descritta nel romanzo…

Qual è un autore classico e uno contemporaneo che è necessario leggere oggi, e perché?

Ritengo Dostoevskij imprescindibile sotto ogni latitudine per il trapano con cui entra nell’animo e ne tira fuori la turbolenta, solare o malata congerie di movimenti profondi, paure, fobie, ricatti, miserie. Dostoevskij è il nostro primo e ultimo libro di lettura. Fra i contemporanei metterei – attingendo ai due sessi per par condicio – nostre glorie quali Morante e Bufalino, gente che sa fare della pagina un’avventura della scrittura, e Saramago. Mai come per la Morante resta valido quello che in tutt’altro contesto osserva James Hillman nel Codice dell’anima: la Morante è il ‘ritorno agli invisibili’, la parola restituita alle sue massime valenze di sortilegio, è proprio il caso di dire: oltre ogni parola prende forma tutta una popolazione prima sconosciuta, che può ferire, affascinare, svenare. Per Bufalino basti pensare ai racconti dell’Uomo invaso e alle Menzogne della notte per rendersi conto delle capacità potenzialmente illimitate della scrittura, del nuovo limite che essa, come finzione, impone alla realtà. Unica è la sua attitudine a cogliere ‘la doppia, tripla proiezione della realtà’ e l’inganno che tende al lettore, la presenza di una verità mai certa. Quanto a Saramago è illuminante la sua quarta di copertina alle Intermittenze della morte: “Succede come negli altri romanzi, organizzo una situazione impossibile e ho bisogno che il lettore accetti la mia proposta. Se lo fa tutto diventa implacabilmente logico”.

Al di là degli scrittori, esistono artisti figurativi, musicali o di altro tipo che hanno influenzato la tua scrittura? Chi sono e perché hanno esercitato un ascendente sulla tua scrittura?

Sono molto legato alle rappresentazioni quattro-cinquecentesche, a quel particolare modo di esporre il romanzo della vita attraverso i piani pittorici, la ritrattistica toccò i vertici in quel periodo, aprendo le porte a una nuova introspezione: diciamo che è una porta attraverso cui orientare la propria emozione. Credo sia accaduto questo al grande Consolo quando scrisse Il sorriso dell’ignoto marinaio. L’arte figurativa è un’altra grande porta per entrare in zona letteraria, e l’osservazione è presto spiegata: se la scrittura vive anche di immagini nulla come pitture e realizzazioni artistiche può influenzarla.

Ti colpisce un meccanismo nella scrittura?

Ognuno di noi ha in qualunque momento, come un archivio sempre disponibile, la ‘memoria della penna’, cioè quel cumulo di frasi di cui ogni giorno è capace la propria scrittura. Ma è una memoria molto variabile, influenzata dalle circostanze, dalle letture, dai fatti di quel giorno, per cui ciò che esce oggi dalla penna è unico, non replicabile. Per tale motivo se si scrive la stessa pagina mille volte avremo mille pagine diverse. Dunque la prima creatività è nella vita stessa, nella sua irripetibilità, in tutti i sensi, nella sua munifica elargizione di fantasmagorie e interazioni sempre diverse: e allora scrivere è solo il secondo passo, il primo l’abbiamo già fatto insieme alla biologia dei fatti, della cronaca, dell’esistere.

Come riesci a tener testa alle scadenze?

Immaginando che tutto è rinviabile, anche e soprattutto ciò che era urgente. È un fatto mentale: le scadenze sono sempre finzioni, in fondo, paletti che ci mettiamo più o meno coscientemente per rinunciare a una gestione più meditata, un odio (quello per le urgenze) che inconsciamente amiamo. L’uomo d’oggi, antropologicamente, ha bisogno delle urgenze per non rientrare nella lentezza. Siamo lontani dal sano ozio di ‘Chi contempla le finestre del buon Dio e non si annoia, è felice’ come diceva Kundera nella Lentezza. Sublime è invece l’urgenza, la velocità quando diventa una questione di stile letterario, e qui, come osservava Calvino in Perché leggere i classici penso al Candido, a quel ‘giro del mondo in 80 pagine’ in cui tutto è rapidità accelerazione accumulo di immagini fulminee.

Se potessi vivere in un qualunque luogo del mondo in cui hai ambientato una tua storia, quale sarebbe, e quale storia ti piacerebbe vivere?

Preferirei vivere nel luogo immaginario, Friss, in cui è ambientato appunto un mio racconto, ed esserne il protagonista, a cui accade qualcosa di agghiacciante e di romantico, di absolutely fuori da ogni schema.

Qual è il ruolo di familiari, amici e conoscenti nella stesura e nella revisione dei tuoi libri?

Li tengo fuori da tutto, preferisco che leggano il mio (e loro!) nuovo universo solo a racconto ultimato. È anche un modo per mantenere l’illusione di aver scritto qualcosa di pregevole.

Quali sono i tuoi vizi e le tue idiosincrasie?

In parte ho già risposto: in famiglia mi astengo scrupolosamente dal far leggere estratti delle mie storie: i giudizi dati con affetto potrebbero portarmi fuori strada. Fra le mie avversioni: l’isolamento. La casa di chi scrive non può avere muri, dev’essere una cassa di risonanza di ciò che accade intorno. È ancora Kundera a sostenere che un romanzo che non scopra un segmento di esistenza prima sconosciuto è immorale. Insomma scrivere ‘in santa pace’ è una frase che non ha molto senso. Mi è più facile invece scrivere sotto l’effetto di un fatto che tolga quella pace, di una storia sentita al tg o in un programma con interviste e dirette. Vizio è quello di pensare che quello che scrivo sia buono, ma credo sia un vizio tipico di chi scrive. Vizio è quello di anteporre il mio esiguo tempo della scrittura (che viene necessariamente dopo il lavoro e i tempi di spostamento da e per casa) a quello di chi mi chiede una mano in famiglia, ma quotidianamente lavoro per correggerlo: credo sia una lotta che terminerà soltanto quando non potrò più scrivere.

Fai una scaletta, uno schema del tuo romanzo, una sinossi prima della stesura? Come concili l’aspetto pulsionale con quello razionale nella scrittura?

Una scaletta è imprescindibile, una sinossi mi vincolerebbe troppo. Nell’ambito della scaletta individuo poi progressivamente i punti da approfondire. Ma i due aspetti sono un equilibrio che devo di volta in volta devo trovare. Vi sono sere in cui prevale l’uno, la fase trainante, pulsionale. Si tratta poi di riorganizzare il tutto nell’economia della trama e verificare ‘ i buchi’ nelle pagine, il che accade quando – ponendomi ex latere lectoris – trovo che occorre un recupero di freddezza, di lucidità.

In base a quali criteri scegli le ambientazioni dei tuoi romanzi?

Vorrei rispondere enfaticamente che sono loro a scegliere me, le emozioni previssute, i flash di immagini che – provate in loco o in via indiretta – hanno ancora una presa retinica e forse non spariranno più: il Sahara per me è una di queste immagini. Finora mi sto riferendo ai casi di ambientazioni realistiche, come è infatti SOLE NERO. Il discorso non vale più per le situazioni in cui vado a modificare le coordinate spaziali, evidentemente. E qui ho il conforto di nomi celeberrimi. Cevengur, per esempio, è l’immaginario ‘villaggio della nuova vita’ descritto nell’omonimo romanzo di Platonov: e l’ambientazione è fantastica. È interessante notare, per restare sull’argomento ‘Sole’, che in Cevengur, villaggio in cui opera il socialismo reale, il sole è definito “proletario universale”! La realtà è che le ambientazioni sono punti fra i più qualificanti di un romanzo. Non è vero che il grande autore non ha bisogno di ambientare troppo la sua storia, tanto poi le parole scorrono comunque. La Allende può usare un letto d’ospedale per raccontare la tragedia della sua Paula: eppure anche lì lo sguardo si allarga e spazia a tempi e luoghi diversi.

Prima e durante la scrittura segui abitudini o rituali propiziatori particolari?

Il tavolo su cui poggia il monitor del pc dev’essere rigorosamente sgombro, nessun libro – nonostante le migliaia che ormai mi ritrovo in casa – deve gravare. La pagina word, bianca, pronta al graffio delle mie idee deve sparare, come nel bianco e nero del neorealismo cinematografico. La scrittura narrativa deve nascere dal bianco e nero della pagina virtuale, il che mi permette di aggiungere qualunque sfumatura nella mappa dell’iride (per quelle del nero, del rosso e del grigio ci ha già pensato E.L.James). La nudità del contesto è insomma la migliore calamita per le immagini, i colori, gli intrecci che mi verranno in mente. Ho anche scritto un romanzo, in corso di revisione, e di successiva pubblicazione con l’editore Leone, in cui vi è esplicitamente un colore dominante. È un romanzo che nasce da una storia vera e ne vuole essere l’ultimo meditato atto d’amore. Io credo che nella scrittura si realizzi una congiunzione altrove impossibile: quella fra slancio e riflessione.

Hai altri libri nel cassetto o progetti in fase di stesura?

Oltre a quello appena accennato, ho pronti un thriller che attende solo di correre la sua strada e un romanzo di formazione. Ho poi una silloge di racconti, essenziali per comprendere la mia idea di scrittura, in cui faccio interagire il fantastico e il grottesco, l’onirico e il poetico, ma anche il più ovvio vissuto quotidiano (salvo poi far scattare un meccanismo di rovesciamento delle certezze).

Non hai mai sperimentato dubbi circa la tua attività di scrittore?

Inizialmente ho vissuto l’umiltà dell’ultimo arrivato, è stata una tassa giusta e doverosa. Quando poi ho compreso che scrivere è il più sincero, dichiarato atto di presunzione ho tolto di mezzo quel fardello che rischiava di irretire la fantasia della scrittura, la sua eversione, e ho iniziato a sentirmi meglio. È chiaro che questo discorso non ha nulla a che vedere con la coscienza della mia continua necessità di formazione e allenamento, di affinamento della lingua, di ricerca, di studio, di lettura…

Che cos’è per te la scrittura?

In prima battuta direi un allargare le braccia per farne grembo e raccogliere quello che mi danno gli altri: semplici storie, intuizioni, desideri, visioni. Sono loro i responsabili, coloro che incontro, più spesso coloro che non ho mai incontrato ma in qualche parte della terra esistono certamente… Non ci credete? Pirandello (sto dunque in ottima compagnia) invece mi darebbe ragione. Va detto poi che ognuno di noi instaura un tipo di comunicazione diversa secondo il destinatario: la parola parlata per la comunicazione orale, il pensiero per ciò che resta legato alla nostra capacità di influire sulla realtà, lo stupore davanti a uno spettacolo naturale, e così ancora. La scrittura è la risposta a quello che sfugge, è lasciar risalire in superficie bolle di esistenza che giacevano sul fondo, asfissiate. È un modo per slargare il reale e rimetterlo in gioco per un’altra possibilità, forse meno logica, più azzardata, talvolta sconvolgente. Forse si fa prima a dire cosa c’è dopo la scrittura: un pullulare di estroversioni (le parole scritte, e le loro meraviglie da Boccaccio in giù) e un mondo superato, quello da cui si parte al momento di iniziare a scrivere e a cui si torna dopo, con un velo d’innamoramento perdurante, nonostante tutto.


Intervista pubblicata su: http://www.agenzialetterariap.com/intervista-righe...